Il primo dato che desterà l’attenzione del futuro fruitore di An Elephant sitting still è indubbiamente la durata.
Abitualmente, lo spettatore contemporaneo prima di prendere la decisione di visionare un film specifico si documenta. Estrapola, dalle fonti a lui accessibili, le informazioni che riterrà necessarie.
3h50m possono risultare scoraggianti persino per lo spettatore cinefilo più avvezzo a film di questa portata. Soprattutto se si vuole considerare il titolo in questione alla luce del fatto di essere opera prima, e tristemente ultima, di Hu Bo. Romanziere cinese scomparso tragicamente all’età di 29 anni. Eppure, non solo Bo dimostra una padronanza insperata nell’utilizzo del mezzo filmico, alla sua prima esperienza. Ma, nonostante la lunga durata, non una scena, non un momento risultano essere di troppo all’interno della costruzione filmica.
Le singole scene ed inquadrature possono sembrare a prima vista prolisse ed eccessivamente dilatate. Ma è propriamente su questo aspetto quasi liturgico della ripresa delle immagini che si fonda la suggestione dell’opera.Hu Bo veicola, intrappolandolo, lo sguardo dello spettatore all’interno di un processo di estatica venerazione. Coinvolto in un culto estetico della messa in scena. Costruito di lunghi piani-sequenza e primi piani, che muovono tutt’attorno la messa in scena senza mai risultare invasivi. In atto quasi contemplativo, riflettendo la piattezza delle loro esistenze.
L’uso esperto della cinepresa ingloba al suo interno tutta una serie di significati che vengono veicolati attraverso il movimento.
In An Elephant sitting still, la telecamera si muove con estrema fluidità attorno ai corpi dei personaggi, costantemente in primo piano. L’occhio cinematografico di Bo ruota attorno a queste figure, che sembrano pure ombre di residui umani, volendone esibire la passività. Incorporandosi intelligentemente all’interno di un continuum narrativo del cinema contemporaneo, Hu Bo mette in scena uomini e donne che costituiscono dei simulacri sui quali l’azione ricade. Li priva della capacità di agire sugli eventi del racconto, come corpi sui quali l’azione ricade.
I protagonisti di quest’opera magistrale si costituiscono come ombre che si muovono in uno spazio desolato e desolante. Rappresentando il profondo sconforto per una società che vive sulla propria pelle una lacerante crisi di valori. Sotto l’egida dell’individualismo più sfrenato e il totale disprezzo per le vite altrui. In una Cina periferica costruita di edifici, infrastrutture e abitazioni fatiscenti, impoverita e indebolita dalle pulsioni capitalistiche del paese. Luoghi abitati da figure quasi mostruose e individui che lottano con prepotenza per la propria ascesa. Tutto per guadagnare un posto rispettabile nella società tanto disprezzata.
Le inquadrature delineate poeticamente assorbono all’interno dello schermo queste figure, che occupano la quasi totalità del minutaggio di An Elephant sitting still. Si avvicinano e si allontanano esperendo la catarsi emotiva in atto. L’apatia dei protagonisti, nei confronti del microcosmo nel quale vivono, si trasforma in intensa ed esasperata reazione ad esso. Le storie dei personaggi messi in scena si delineano lungo un percorso narrativo che le intreccia, venendo accomunati da una condizione di sottomissione verso figure loro predominanti. Sono figure marginali che avvertono il peso di una sensazione di inadeguatezza, indotti a vagare in una landa desolata. Una distesa privata dei suoi legami con coordinate spazio-temporali di qualunque genere, dove si diventa prigionieri di una bolla esistenziale. Provano allora a redimersi attraverso un viaggio, che assume i connotati di un rituale spirituale.
Il racconto procede facendo confluire le sue varie storie episodiche.
Come se una mano divina muovesse le fila delle loro vite, sintomo forse della deformazione professionale da romanziere di Bo. Un narratore onnisciente e manovratore, molto presente ma abile nel nascondere la macchinosità forzata della struttura narrativa. Così i personaggi si uniscono nel loro silenzio, con la figura del vicepreside, tra i personaggi più corrotti e misantropi, che assume un ruolo quasi didascalico. Come una sorta di alter ego di Bo, il vicepreside regala un insperato senso di speranza indicando il viaggio come fonte di fuga e cambiamento. È l’unico personaggio mai focalizzato, inquadrato sullo sfondo come uno spettatore non pagante, uno spettro in scena; arriva ad assumere dei tratti distintivi nel momento in cui pone in essere la visione di Bo.
An Elephant sitting stilldimostra la profonda e piena maturità di Hu Bo. Il suo occhio critico riflette l’estreme conseguenze di capitalismo spietato, nato dal sogno socialista cinese, che ha condotto il paese ad un’impasse sociale, determinando una visione quasi apocalittica dello stesso. Ciò nonostante l’opera filmica muove i primi passi in maniera incerta, nel mettere in mostra i conflitti e le angosce esistenziali, peccando di determinismo ontologico. Viene così dato più spazio ad alcuni personaggi rispetto ad altri, diventati sempre più marginali.
Hu Bo si muove su livelli elevati di costruzione filmica, oscurandone i difetti, sotto il segno della meravigliosa aura che emana l’opera. An Elphant sitting stillè un affresco affascinante e struggente, costruito finemente e con tecnica minuziosa. Non è solo un interessante documento satirico, ma una perla del panorama cinematografico cinese, che annovera già molto maestri tra le proprie fila.