Polonia, 1949. Sigarette che inghiottiscono l’ambiente circostante con il grigiore del loro fumo, tazze bollenti circondate da vapori fumanti e neve che scende lenta, imbiancando distese sterminate. Coprendo e comprimendo in soli 85 minuti un lasso temporale che si estende fra il 1949 e il 1964, Cold War –traduzione della locuzione polacca Zimna wojna– di Pawel Pawlikowski è la realistica trasposizione cinematografica di una storia d’amore che, scandita dall’intrecciarsi di ricordi e sensazioni, si dirama sotto la minaccia della Guerra Fredda, intensificandosi con il proseguire di un pellegrinaggio verso una libertà fermamente proibita e fortemente agognata.
Ritratto veritiero di due esistenze lacerate e di una nazione martoriata, condotto con un’eleganza libera dalla corruzione dell’artificialità dovuta all’eccessiva ricercatezza, Cold War –premiato presso l’ultima edizione del Festival di Cannes con l’ambito Prix de la mise en scène– si presenta allo spettatore come un grande e complessomosaico tematico in cui vengono incastonate profonde ed accurate riflessioni su amore e società, folklore e storia, arte e politica.
Un’interpretazione letterale. Ovvero, una storia d’amore.
Occhi attenti che scrutano i volti che si presentano a loro. Occhi severi di insegnanti dai volti imperscrutabili. Occhi algidi, dal chiarore dell’est. Occhi esperti, in grado di perforare maschere, di osservare anime. E poi lei, diamante tra i cristalli.
Attraverso un gioco di finzioni e di attese che si estende lungo un continuo succedersi di allontanamenti, scontri e cambiamenti, Cold War segue le esistenze tormentate della giovane cantante Zuzanna Lichoń –interpretata da una magistrale Joanna Kulig che, intravista nel precedente Ida (2013) nel ruolo di cantante, offre al paesaggio cinematografico una delle performance più potenti di quest’anno– e del musicista Wiktor Warski (Tomasz Kot), due vite che proseguono su binari paralleli, ma terribilmente vicini, binari che si snodano lungo l’intera Europa, attraversando l’area di influenza sovietica –la Polonia e la Yugoslavia–, Parigi e Berlino.
Attingendo all’immaginario perduto di una Polonia post-bellica fotografata tra i suoi resti e le sue macerie, attraverso Cold War, Pawel Pawlikowski racconta un amore struggente e irrealizzabile, costituito di ideali, proiezioni irreali e promesse mai mantenute.
Lontani dalla propria lingua, lontani dalle proprie canzoni, lontani dal proprio sale e dal proprio pane, volontariamente esuli in terra straniera, attraversare Parigi seduti su un bateau-mouche, osservando la presunta tranquillità delle vite degli altri, condotte in una naturale spensieratezza, totalmente straniera alla propria patria; una spensieratezza che, nel microcosmo in cui agiscono nella prima parte del film –ovvero, la scuola di arte folkloristica, proiezione del macroscopico regime totalitario sovietico–, è propria solamente dell’estro di Zuzanna, unica fonte di energia in un sistema rigidamente confinato e fortemente limitato da regole, dove tutto è bianco o nero e dove non c’è posto per le mezze misure.
Una lettura allegorica. Ovvero, una Polonia lacerata.
Feste di paese, fisarmoniche, canti e balli. Gonne dai ricami casarecci, intarsiate di fregi tradizionali, che ruotano intorno a se stesse, creando visioni tanto caotiche, quanto suggestive.
Muovendosi nei meandri più reconditi della tradizionalità folkloristica, Pawel Pawlikowski affianca all’aspetto letterale del racconto un impianto concettuale e metaforico ben più articolato, per il quale la storia d’amore si trasforma in una proiezione simbolica, in un poema lirico dove viene rappresentato, come un ologramma, il passato perduto e ormai impossibile da recuperare di una nazione: abbandonando il carattere esplicito dell’interpretazione letterale, la narrazione si trasforma in una personale reinterpretazione di un determinato contesto spazio-temporale. In questo modo, il regista dà origine ad una confusione destabilizzante tra finzione scenica e realtà storica.
Un continuo inseguimento dell’altro. Spinti da pulsioni irrazionali, legati alla dimensione intangibile della sfera ideologica, i protagonisti si distaccano dalla quotidianità, dal mondo e dai suoi valori correnti per ottenere la libertà della redenzione. Un rincorrersi inarrestabile dovuto all’incapacità di convivere, ma, al tempo stesso, di separarsi per sempre.
Elegia di una nazione incapace di conciliarsi, Cold War riesce ad emergere come vivida ricostruzione di un contesto socio-politico che –senza essere riprodotto nei minimi dettagli, restando solamente uno sfondo su cui si muovono le ombre dei personaggi– assume la forma di uno specchio, di una superficie in cui si riflette perfettamente lo scontro di ideale e concreto, dove il primo si riconosce all’interno dell’individuo-simbolo Wiktor Warski e il secondo nella persona di Zuzanna Lichoń, il cui nome trasmuta in senhal, in maschera sotto alla quale si cela l’essenza della Polonia, della patria, definita dal regista stesso un “tema sempre aperto nel mio cinema”.
Lei, studentessa, il concreto. Lui, insegnante, l’ideale.
“Chi diventerò?” chiede la giovane all’amante, prima di separarsi da lui. Allegoria di una nazione in ginocchio che, sconvolta dai crimini del dramma bellico di cui era stata vittima e registrata durante l’oppressione del regime comunista, cerca senza sosta la propria identità, la protagonista si presenta come una donna scissa tra il desiderio del voler essere –e, quindi, una Polonia determinata a raggiungere la libertà dall’asfissia rossa, riscattandosi e affermandosi– e l’imposizione del dover essere –e, quindi, una Polonia costretta ad accettare la tortura che le è stata imposta e incapace di trasformarsi, spezzando le proprie catene.
Evocatrice di purezza ed innocenza, moderna Ophelia estrapolata dal quadro dell’inglese John Everett Millais –visivamente richiamato in una scena del film, dove l’attrice polacca viene fotografata mentre canta stralci di melodie antiche con le vesti ringofiate, come se fosse una creatura nata e formata per quell’elemento– e riportata in vita attraverso il medium cinematografico, Zuzanna Lichoń rappresenta il materiale tangibile –ovvero, la Polonia– da plasmare a proprio piacimento, seguendo le impressioni che derivano dal puro concetto: eterno femmineo, la Donna-Nazione si configura come l’unica forza in grado di muovere, sedurre e costringuere l’Uomo-Ideale a ricostruirla da zero.
Comunismo, collettività e folklore. Trovando il proprio terreno fertile e la propria argilla in quelle radici primitive e rurali che il regime sovietico ha sempre cercato di sradicare attraverso un’opera di apparente fortificazione delle stesse, Pawel Pawlikowski traduce in immagini i ricordi di una nazione, impregnando la sua narrazione dell’ethnos della sua Polonia, mondo algido in cui la sofferenza è, al tempo stesso, soffocata e amplificata da una sensazione di artificio, cristallizzazione; mondo straniato in cui tutto appare come costruzione e obbligo, come una naturale e per questo rassegnante obbedienza all’auctoritas.
Al pari della Guerra Fredda, la visione allegorica di Cold War si alimenta del non pronunciato, del non dichiarato, dell’implicito. Non rivela, esplicitando, ma suggerisce, nascondendo la propria essenza, consentendo di porre in relazione la narrazione effettiva con le radici di quella realtà del mondo sensibile che le corrispondono e da cui attinge.
Una visione d’insieme. Ovvero, Cold War.
Primi piani sui volti dei personaggi, spettri di una comunità sfinita dalla tragedia post-bellica, sulle cui spalle si posiziona il peso di un’intera nazione. Suonano e cantano melodie passate, ingabbiati in un microcosmo asfissiante che riconosce le proprie fondamenta nelle proibizioni implicite e mai pronunciate, accettate con un tacito assenso.
Documentando e ricostruendo l’ethnosdella propria patria con un’intensità descrittiva fuori dal comune –dovuta all’ossessiva volontà del regista di fornire una traduzione fedele di ciò che è stata la Polonia e di ciò che è stato in Polonia–, Pawel Pawlikowski non si posiziona mai troppo vicino, anche nella realizzazione dei primi piani, mantenendo la propria compostezza osservatrice e il proprio sguardo analitico, i quali si declinano esteticamente in uno stile formale ed elegante, in un minimalismo in cui si riscontra la semplicità della bellezza.
La verità di cui il film si fa testimone viene registrata attraverso un severo ma estasiante monocromatismo che, algido e rigoroso, si rivela in grado di trasportare in una dimensione altra, in un’epoca lontana che, per la vividità con cui vengono trasposte le memorie, sembra essere viva e presente. Un’epoca lontana, ma, istantaneamente, vicina.
Nessuna scelta è stata lasciata al caso. Nemmeno il formato fotografico. Il 4:3 di Cold War –grazie al quale, nel precedente Ida, l’artista polacco ha rapito il pubblico– si trasforma in un’estensione della narrazione, comunicando non solo la rigidità delle coordinate spazio-temporali, ma anche e soprattutto la soffocante repressione dell’Unione Sovietica e della Guerra Fredda: concettualmente, a causa del suo carattere limitante, esso evoca la sensazione di essere imprigionati in una gabbia che si impone sui personaggi, costringendoli ed opprimendoli.
Ispirandosi alla vicenda biografica dei propri genitori, definita dallo stesso regista “un disastro senza fine”, Pawel Pawlikowski concepisce e plasma un’opera in cui ha riversato tutto il proprio essere, tutto se stesso. Con Cold War, l’artista genera un’opera nata dalla rielaborazione di un patrimonio che discende da un’eredità personale, componendo una lettera d’amore alle proprie origini. Origini familiari, patriottiche, culturali.
In uscita nelle sale cinematografiche italiane il 20 dicembre, Cold War lavora su concetti di ampio respiro –quali l’amore, il folklore e la politica– restituiti al pubblico attraverso la creazione di situazioni verosimili che, filtrate attraverso le memorie domestiche di Pawel Pawlikowski, appartengono alla creatività del demiurgo che le ha generate e, quindi, alla finzione narrativa. In tal senso, in Cold War, la finzione cinematografica si trasforma,ancora una volta, in un potente strumento a servizio della realtà alla quale si era precedentemente ispirata. Una realtà di fronte alla quale è impossibile non restare estasiati.