Recensione Baby – Lo stereotipato mondo delle Parioline di Netflix
Baby, con l'occhio distratto al caso di cronaca "Baby Squillo", ripropone temi adolescenziali in maniera stereotipata e ripetitiva. Ecco la recensione della serie TV.
Da oggi 30 Novembre è disponibile su Netflix la miniserie Baby, una delle prime produzioni tutte italiane del colosso dello streaming americano.
Ispirato solo di nome, ma non di fatto, alla vicenda che sconvolse i quartieri bene della Capitale, Baby è la storia di Ludovica (Alice Pagani) e Chiara (Benedetta Porcaroli).
Le due protagoniste studiano all’Istituto Collodi, una scuola privata in pieno stile americano, insieme ai figli delle ricche famiglie di Roma. In contrasto al mondo benpensante ed ipocrita dei genitori, i loro figli trascorrono l’adolescenza lasciandosi andare a repressioni ed eccessi, vivendo la vita fino ad imboccare vicoli senza uscita.
È la storia delle due ragazze: la prima (Ludovica) vive con la madre dopo l’abbandono del padre in una situazione di “agiata turbolenza”; la seconda (Chiara) vive in una famiglia che cela sotto il velo benpensante una cattiva educazione verso l’unica figlia in un clima familiare pesante.
Tra amori, gelosie e bullismo, tutti i ragazzi si immischiano in prostituzione, alcol, e spaccio di droga. Ognuno con una diversa (e sotto diversi punti di vista, valida) ragione per farlo.
Baby: un Elite in versione pariolina
Netflix, nonostante abbia implicitamente promesso rivoluzione contenutistica, è ferma sullo standard di tante altre serie televisive italiane. È vero che trattare un argomento così delicato – ancora poco metabolizzato dall’opinione pubblica – è certamente coraggioso, ma il modo in cui si fa non soddisfa assolutamente le aspettative.
Baby più che essere una serie-verità, una serie denuncia, un prodotto per far conoscere al grande pubblico dinamiche aberranti, strizza l’occhio al teen-drama senza decollare veramente. Chi ha avuto modo di guardare Elite non avrà dubbi: Baby presenta lo stesso copione in salsa pariolina.
La stessa struttura narrativa stabilisce le priorità della serie: vengono impiegate ben tre puntate (su sei!) per raccontare un mondo che è comune agli adolescenti di ogni zona o condizione economica. Invidie tra ragazze, bullismo tra ragazzi, e tanta voglia di evadere anche da una condizione più che agiata.
Il plot vero e proprio affiora troppo tardi quando le ragazze, chi per soldi chi per dispetto, cadono nella tela di due sfruttatori della prostituzione senza scrupolo. Le vittime non tarderanno a rendersi conto che quella simile a una trasgressione tra amiche diventa una vera e propria trappola da cui fuggire.
Baby: il mondo dei quartieri alti continua a rimanere ignoto
Ciò che scandalizzò di più l’opinione pubblica del caso Baby Squillo fu la fitta rete a cui molte ragazze “al di sopra di ogni sospetto” (per scomodare Petri) afferivano. Nonostante lo scoop partì da due ragazzine, fu subito chiaro agli investigatori che il fenomeno era diffuso a macchia d’olio.
È questo che gli sceneggiatori di Baby dimenticano per strada, ed è in questo che la serie non riesce a differenziarsi tra tante altre che parlano di problemi e tragedie adolescenziali. Guardando la serie si ha l’impressione che il caso di Ludovica e Chiara sia isolato, quando non lo è, e che esista una netta distinzione tra buoni e cattivi, quando nella realtà esiste un flebile confine.
I personaggi presentati, dai protagonisti ai minori, sono poco strutturati psicologicamente parlando. Abbiamo la ragazza di buona famiglia che si è costruita l’immagine di “maledetta”, il ragazzo “borgataro” catapultato in una realtà altolocata, il ragazzo timido che reprime la propria omosessualità e tanto altro.
Il senso di “squallore” che una storia del genere dovrebbe instillare non è percepito vista la forte stereotipizzazione nella scrittura dei personaggi. Al contrario, però, la cornice riesce ad essere abbastanza realistica. Partendo dalla colonna sonora con i TheGiornalisti, Maneskin e musica trap fino all’ossessivo uso dei social e della tecnologia.
Baby: la regia è di ampio respiro
Ciò che, forse, veramente caratterizza (in positivo) questa mini-serie è la regia. Appoggiandosi a modelli ben affermati del cinema italiano e straniero, riesce a dare un respiro quantomeno internazionale al prodotto televisivo. Certamente più che una caratteristica, una necessità visto il respiro globale di Madre Netflix.
I modelli sono chiaramente Sorrentiniani da una parte e – a sorpresa – non manca qualcosa di Refn, a partire da una fotografia con colori vividi e irreali a finire dal font glam della serie che ricorda molto quello di Drive.
Ad ogni modo, nonostante gli spunti positivi da riconoscere ad Andrea De Sica e Anna Negri e – naturalmente – agli attori, questa rivoluzione tanto attesa la aspettavamo molto diversa.