Dopo l’Oscar insperato con Moolight, Barry Jenkins torna con Se La Strada Potesse Parlare, primo adattamento dell’omonimo romanzo scritto da James Baldwin. Ed è proprio allo scrittore che il film è dedicato, così come è dedicata l’apertura. Un brano del libro funge da sipario, prima di farci entrare nel mondo di Tish e Fonny, due ragazzi che si amano nella Harlem degli anni ’70. Un bacio che sa di un addio, struggente come il saluto che Fonny rivolge a Tish prima di entrare in carcere a causa di una falsa accusa di stupro. Si inizia così con una voce fuori campo, quella di Tish, che ci accompagna nella sua vita, improvvisamente ribaltata dall’inaspettato arrivo di una gravidanza. E intanto, c’è una verità da scoprire ad ogni costo.
Dopo aver raccontato il problema dell’omofobia in Moolight, Jenkins ci parla di amore e razzismo grazie alla trasposizione del suo autore preferito, come ci rivela durante la conferenza stampa. Così come accade nel libro, Se La Strada Potesse Parlare si muove principlamente su due binari paralleli, dove uno non invade l’altro. Anzi, coesistono alla perfezione nonostante un’essenza profondamente antitetica. Da un lato l’odio, dall’altro l’amore. Grazie all’utilizzo di numerosi flashback, Jenkins ci raccontal’amore puro e protettivo che c’è tra Tish e Fonny, in pieno contrasto con un presente poco confortevole. Un gioco di antitesi che si palesa già da subito, durante la sequenza in cui le due famiglie si incontrano per la lieta novella.
Lieta per tutti tranne che per la bigotta madre di Fonny, la quale, supportata dalle sue due figlie, inizia a creare una situazione di profondo disagio per tutti. Tish in primis e il padre di Fonny in secundis che andrà in escandescenze dopo che gli insulti rivolti alla povera Tish diverrano sempre meno velati. Sale la tensione secondo dopo secondo fin quando a metà c’è una brusca interruzione. Un flashback, uno dei tanti, che ci mostra la tenerezza dei due fidanzati. E se da un lato riesce a spezzare l’iniziale tensione, dall’altro amplifica la parte finale della sequenza. Proprio qesta è la peculiarità di Se la strada potesse parlare, soprattutto a livello narrativo: mostrare un contrasto perenne tra le due emozioni diverse per definizione.
E sullo sfondo, c’è la tenacia di Tish e della sua famiglia che si fa in quattro per poter salvare Fonny da un’ingiusta pena. Cosa non facile per una famiglia afroamericana nell’America degli anni ’70. Il microcosmo di Fonny e Tish entra di diritto in un discorso più ampio e collettivo legato alla denuncia sociale, dove tutt’ora vige l’esclusione. Anche a distanza di anni. “È difficile essere neri o latinos nell’America di oggi, soprattutto con questo presidente“. Così afferma Jenkins durante la conferenza di Se La Strada Potesse Parlare. Una frase forte e che rispecchia un problema sociale ancora vivo oggi nel presente.
Sarebbe riduttivo parlare di Se la strada potesse parlare come un legal movie ma la sfumatura che la storia scritta da Baldwin gli conferisce è perfettamente funzionale alla denuncia di un tema molto caro, soprattutto a Jenkins: quello della denuncia. La regia asciutta, fatta di primissimi piani e guardi in camera, permette di empatizzare con i protagonisti e la tutta la vicenda. Così come la voce fuori campo e gli intermezzi didascalici che permettono una piena comprensione dell’improbabile accusa rivolta a Fonny. Il tutto senza mai scadere nel retorico o nel banale.
Se La Strada Potesse Parlare è un film intenso, profondo, grazie al quale Jenkins riesce ad inserire tematiche sociali direttamente proporzionali con la storia, in perfetto equilibrio. Niente si lascia sopraffare, la love story non sovrasta la volontà di denunciare. Tutto si muove in perfetta sincronia. Proprio come accadeva a Fonny e Tish.