Un altro piccolo inserto d’atmosfera, tratto da un album come Lonerism, che è fondamentalmente un concept album sulla solitudine, l’esclusione e l’alienazione. Come suo solito, Kevin Parker riesce a caratterizzare fortemente anche una composizione tanto breve, colorandola con il suo stile sonoro tipico.
Alice in Chains – Iron Gland
Vi abbiamo già parlato di questa traccia degli Alice in Chains nella nostra top 10 dedicata alle ghost tracks, ma ci è sembrato che valesse la pena di riesumarla, se non altro data la presenza di Tom Araya degli Slayer.
Misfits – Braineaters
Braineaters è la canzone di chiusura dell’album Walk Among Us dei Misfits, l’album horror punk per eccellenza. Come le altre tracce del disco, la composizione riprende temi tratti dall’immaginario dell’orrore, sposandoli con sonorità molto fedeli al punk ’77.
Pink Floyd – The Grand Vizier’s Garden Party (Exit)
In Ummagumma (1969), ciascuno dei quattro Pink Floyd contribuì con una traccia a testa (tranne Roger Waters, che ne fornì due). Un’operazione, insomma, simile a quella sopra esemplificata dagli Yes. Ciascuna di queste tracce venne divisa in segmenti, e The Grand Vizier’s Garden Party, il contributo di Nick Mason (il batterista) termina come potete sentire qui. Si tratta di un momento particolarmente classicheggiante, che in qualche modo anticipa le derive orchestrali di Atom Heart Mother (1970). La traccia venne arrangiata da Ron Geesin, e suonata dalla flautista Lindy Mason, allora moglie di Nick.
Black Sabbath – Embryo
Embryo è un piccolo elegante strumentale composto dal chitarrista Tony Iommi e inserito nel terzo album dei Black Sabbath, Master of Reality (1971). Simili tracce, molto pregevoli, sono frequenti nella discografia dei Black Sabbath, andando a puntellare e impreziosire il corpus principale dell’heavy metal della band con divagazioni più ambiziose e ricercate. Embryo è forse uno dei più notevoli esempi in questo senso.
The Beatles – Wild Honey Pie
Wild Honey Pie è una di quelle canzoni che dovete far sentire ai detrattori dei Beatles. Inserita, non a caso, nel famoso White Album, non dura neanche un minuto e venne registrata come esperimento dal solo Paul McCartney, che sovrappose diverse “impressioni” musicali per creare questo piccolo ritratto auto-parodistico e un po’ dada. Il riferimento è ad un altra sua canzone, sempre dello stesso album, intitolata invece Honey Pie e di tutt’altra fattura.