La rivoluzione di Tom Morello non è più la politica, ma è l’unità e l’abbattimento dei confini.
Sembra già di sentirli, i numerosissimi fan dei Rage Against the Machine, che ascoltando questo nuovo album di Tom Morello non riusciranno a trattenere sulle loro lingue la tipica frase: “si è venduto“. Perché The Atlas Underground tutto sembra, tranne che un disco dell’uomo che sulla chitarra scriveva “arm the homeless”. Perché non c’è la politica? Perché non c’è la rivoluzione? Dov’è l’atteso, quasi d’obbligo, “Fuck Trump?”
Quello di Tom Morello, è vero, non è un album che vuole fare la rivoluzione. Anzi, se ragioniamo con i criteri di venti o quindici anni fa, adotta sonorità che rappresentano tutto il contrario. Un misto di EDM e di rock elettronico, certo forte, scontroso, aggressivo, potente. Ma rivoluzionario? Anche no.
Siamo sicuri che Tom Morello si sia dunque “venduto”? Pensateci bene. E se il chitarrista fosse semplicemente maturato, arrivando a comprendere che in quest’epoca di computer il rock e la sua spinta anti-sistema, per sopravvivere, debbano conformarsi? O meglio integrarsi, unire le forze con gli altri generi musicali, per creare qualcosa di veramente forte? Che Tom Morello abbia intuito che una replica dei Rage Against the Machine sarebbe suonata forse solo come una parodia?
Quello che cerchiamo di dire è che il chitarrista, sulla scena più o meno da trent’anni, sembra avere ben chiaro il tempo che sta vivendo.
La rivoluzione di Tom Morello non è esteriore, distruttiva, trasgressiva. Si tratta invece di un rivoluzione interiore, costruttiva, e sì, conformista. Perché The Atlas Underground contiene tutti gli elementi di un disco commerciale della contemporaneità, mutuati principalmente dal dubstep (con un po’ di ritardo), dall’hip-hop e dall’elettronica.
Ma è la gamma di collaborazioni molto differenti a rendere The Atlas Underground un disco davvero meritevole. Dai Knife Party a Marcus Mumford, da Bassnectar a Steve Aoki, dai Portugal. The Man a RZA. Ecco la rivoluzione di Tom Morello: non un disco rock con i riff vecchio stile, arrabbiato e urlato. Ma un disco che crei un linguaggio unito, una musica che già di per sé parla di collegialità, unità, comprensione reciproca. E abbattimento dei confini. Pensateci: siamo in un’epoca in cui di confini se ne stanno tracciando fin troppi.
Tom Morello, con il suo album, vuole cancellarli non già fisicamente, quanto concettualmente, fin dal pensiero. E la struttura, la forza, la potenza delle collaborazioni nel suo album, in qualche modo indicano la via. Lo prova il fatto che il chitarrista, pur intitolando l’album a suo nome, nelle canzoni lascia sempre spazio ai suoi collaboratori. La sua chitarra non è invasiva, si fa tranquillamente da parte per far parlare gli sfoghi elettronici e le voci dei suoi ospiti.
E se ponessimo che uno dei problemi più pressanti della contemporaneità, di cui i confini sono purtroppo una conseguenza, sia il fatto che siamo in troppi e stiamo troppo stretti? Non può essere allora che il disco di Morello, con il suo vigoroso invito al dialogo e alla collaborazione, si riveli comunque un’opera rivoluzionaria in tal senso? Trovate voi la risposta.