Twenty One Pilots – Recensione Trench

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I Twenty One Pilots intraprendono la strada del pop come percorso di liberazione mentale.

Tenetevi forte, perché partiamo subito con la polemica: i Twenty One Pilots hanno fatto un disco pop. Inutile girarci intorno. Questo è pop per le masse, coperto da tutti gli elementi caratteristici dei generi “giovani”, un miscuglio di hip-hop “per bianchi”, elettronica, R&B e soul. Di rock, quasi nulla. In Trench non è rimasto niente dell’aggressività e della forza espressiva degli album precedenti dei Twenty One Pilots, salvo che in un paio di canzoni. Il disco suona invece malinconico, addirittura triste, straordinariamente riflessivo.

Ora accadrà ciò che accade ogni volta che un artista compie una “svolta commerciale“: da una parte ci sarà chi parlerà di maturazione, di serietà, di onestà artistica; dall’altra ci saranno quelli che in queste occasioni gridano “venduti!“, i delusi, che si fermeranno semplicemente al fatto che questo album è più orecchiabile e meno arrabbiato rispetto allo stile tipico dei Twenty One Pilots. Per quanto ci riguarda, non abbiamo dubbi: stiamo con i primi. Per i secondi, forse sarebbe il momento di crescere, e smettere di guardare al “pop” come alla causa di tutti i mali del mondo.

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I Twenty One Pilots l’hanno fatto, o forse intendono farlo: il cambiamento è ancora in corso. E il cambiamento consiste nella ricerca di una via d’uscita dalla trincea del titolo dell’album (Trench). Trincea ovviamente metaforica, che ha molto a che fare con il “muro” dei Pink Floyd. Una trincea mentale fatta di odio, pregiudizio, sensi di colpa, auto-commiserazione. Il primo verso dell’album, in Jumpsuit, recita: “I can’t believe how much I hate/Pressures of a new place roll my way“. L’esigenza di una trasformazione, di una fuga da questa gabbia di rancore, guida i Twenty One Pilots attraverso un disco profondo, che lascia in secondo piano le sonorità più alternative per dedicarsi all’esplorazione del concept qui individuato.

Tutto l’album sembra infatti un progressivo allontanamento da questa trincea, che in qualche modo rappresenta anche le musiche precedenti del duo: dove essi erano, dove essi sono, dove essi vogliono andare ora. Più in generale, rappresenta il passato. Infatti, le prime due canzoni dell’album, Jumpsuit e Levitate, sono molto vicine allo stile classico dei Twenty One Pilots. Ma con l’incedere del disco si giunge a pezzi molto diversi, come Smithereens, e soprattutto The Hype, quest’ultima ovviamente, palesemente, indiscutibilmente pop. Ma i suoni pop rappresentano forse una liberazione, il rifiuto dell’artista di rimanere incasellato nei soliti generi, il rifiuto di restare incastrato nella trincea, la volontà di aprirsi quindi al mondo.

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Perché è chiaro che Trench è un disco estremamente sentito, che anela il cambiamento, lo persegue: il disco di chi è stufo di piangersi addosso. Non che questo sia un album allegro, beninteso; anzi, gran parte delle canzoni riprendono comunque, se non le sonorità, almeno le atmosfere melanconiche caratteristiche del duo. Ma certo è che un cambiamento è iniziato, e parte dal rifiuto dei Twenty One Pilots di dover fare sempre una stessa musica, o di dover parlare sempre delle stesse cose. Un disco che qualcuno definirebbe sottotono, qualcun altro introspettivo, è il prezzo da pagare. Nell’ultima canzone, Leave the City, Tyler Joseph canta: “In time, I will leave the city/For now, I will stay alive“. Come dire: per ora rimango qui, ma sappiate che voglio andarmene.

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