INTERVISTA A PIPPO MEZZAPESA REGISTA DI IL BENE MIO
Il bene mio è l’ultimo film del giovane regista Pippo Mezzapesa. Pugliese, dopo una certa gavetta, è riuscito ad arrivare a Venezia. Dove alle 75° edizione del festival ha presentato il suo ultimo film. Un malinconico racconto sull’abbandona, la volontà di ricordare e la necessità di andare avanti. Usando come metafora un eremita che si fa custode di una paese abbandonato dai suoi abitanti. Di sotto intanto l’intervista al regista.
Da dove nasce l’idea, dove hai trovato l’ispirazione per questo Il bene mio? A Roscigno, un paese abbandonato nel Cilento, vive quasi in isolamento un uomo, unico abitante rimasto. La conoscevi questa storia, c’è una connessione?
La storia nasce dal fascino che esercitano su di me i paesi abbandonati. Questi luoghi che molto spesso in seguito a catastrofi naturali, sono rimasti senza vita, ma che conservano un’anima profonda. Strade deserte, spazzate dal vento, in cui basta chiudere gli occhi per sentire la loro voce e percepire l’eco di quello che è stato. Dei paesi in fondo traditi da comunità che hanno preferito ricominciare altrove.
Ho voluto raccontare la storia di un uomo che non ha voglia di dimenticare e che decide non solo di non andare via dal suo paese, ma di diventarne un vero e proprio custode. Iniziando una lotta contro chi crede che ci possa essere un futuro non fondato su quello che si è stati, sulla nostra memoria e su quella dei luoghi. Per documentarmi in fase di sceneggiatura e in seguito per cercare la giusta location in cui ambientare le riprese, ho visitato molti paesi fantasma.
Tra questi anche Roscigno e il suo ultimo abitante, Giuseppe Spagnuolo. Con cui ho parlato una giornata intera dopo aver già scritto la sceneggiatura e che ha sicuramente dei tratti in comune con Elia. La stessa tenacia, la perseveranza e anche una singolare apertura verso il mondo e le persone che vanno a fargli visita (anche turisti e curiosi). Il mio Elia è infatti un eremita anomalo. Un uomo che si è isolato e che lotta non per misantropia, tutt’altro, perché vorrebbe riportare la vita nelle strade del suo paese. Vorrebbe che quella voce di Provvidenza non fosse più soltanto un’eco lontana.
Hai dichiarato di aver utilizzato l’idea di ambientare Il bene mio in paesi abbandonati perché ne sei appassionato, anche io. Cosa ci vedi? Che sensazioni ti trasmettono?
Sono posti che hanno una loro magia, un fascino profondo ma anche una malinconia che prende l’anima. Tutto parla di quello che c’era e ora è svanito. Le case con i segni di una vita spesa tra mura ormai cadenti, le piazze spazzate dal vento, le botteghe o il cinema con le insegne sbiadite.
E poi tanto mi conquista il loro apparente silenzio, che in realtà è un respiro gonfio di rumori, una vera e propria sinfonia dell’abbandono. Sono luoghi in cui forte è la sensazione di quanto sia importante preservare la memoria dal logorio del tempo, dallo sciacallaggio, dalla dimenticanza.
La sceneggiatura è stata scritta in collaborazione con Antonella Gaeta e Massimo de Angelis. Quanto ha influito questo scambio di idea sulla lavorazione?
Con Antonella Gaeta collaboro da sempre. Con Massimo De Angelis, invece, questa è la prima felicissima collaborazione. C’è stato un serrato scambio di idee tra di noi. Un confronto continuo mirato soprattutto a delineare in modo accurato la psicologia di Elia e degli altri personaggi. Perché è stato a tutti chiaro sin dall’inizio che questa dovesse essere la storia di Elia. Ma anche di una comunità che si è persa e che proprio attorno a quest’uomo riesce a ritrovarsi. E’ sempre divertente avere un confronto, a volte anche animato, quando la direzione è chiara e nel nostro gruppo di lavoro non abbiamo mai smarrito la strada.
Il Bene mio permette una riflessione più ampia, quasi come fosse una metafora attuale e per la lotta tra il progresso e la tradizione, che però posso convivere. Diresti che ha un taglio anche politico, volendo parlare, anche se in parte, della situazione migranti e il tema dell’accoglienza in Italia?
Inevitabile pensare a dei legami con la realtà in cui viviamo, perché Il Bene mio parla di un paese che ha perso la memoria. Parla di crolli reali e metaforici, del senso di smarrimento in cui si muove la comunità di Provvidenza, della voglia di rimuovere il dolore dimenticando. E’ una storia sull’importanza della memoria, della conoscenza di quello che si è stati e di ciò che si è come unica possibilità per aprirsi al mondo. Della necessità di non disperdere il passato per affrontare un futuro possibile. E certo, è anche un film in cui forte è l’idea di confine.
Elia è in fondo bloccato tra l’incapacità di scendere da Provvidenza e l’impossibilità di varcare la soglia della scuola. In cui ha perso sua moglie il giorno del terremoto e a sua volta il sindaco gli sta costruendo una recinzione tutt’intorno, perché ha deciso di inibire l’accesso a Provvidenza. Confini fisici e mentali che Elia lotta per infrangere e che verranno spazzati via dall’arrivo di una donna che proviene da paesi lontani. Che fugge dal dolore e dalla distruzione e che lui riuscirà ad accogliere e a salvare.
Il personaggio di Elia è un nostalgico, si fa depositario della memoria collettiva, diventa il simbolo del ricordo. Il Bene mio vuole essere un’incitazione a ricordare, progredire conservando le tradizioni?
Vuole fornire uno spunto di riflessione su quanto sia importante non smarrire la memoria e sapere da dove veniamo e chi siamo per comprendere dove stiamo andando. Su quanto sia più semplice aprirsi al confronto e alla conoscenza se prima si ha una cognizione precisa di se stessi. Tutte le paure verso quello che sarà e verso gli altri provengono da una profonda insicurezza e da una scarsa conoscenza del proprio mondo e della propria storia.
Per interpretare Elia sei riuscito a portare sul set Sergio Rubini, attore che io apprezzo molto. Com’è stato lavorare con lui? Credi sia riuscito ad infondere nel personaggio l’essenza che desideravi?
Sergio Rubini è stato Elia praticamente dal primo momento. Da sempre questo personaggio ha avuto il suo sguardo, il suo viso e le sue movenze. Volevamo raccontare un uomo animato da una profonda coerenza, coriaceo. Ma con un dolore che scava dentro e non si rimargina e allo stesso tempo una persona vitale, energica, inquieta ma con una sua solarità. Un uomo aperto al mondo, che vuole la vita e che rifugge l’idea della morte e dell’abbandono delle persone e dei luoghi.
Credo che Sergio Rubini, con un grande lavoro di immedesimazione e di ricerca, abbia colto questa doppia anima. Questa profonda dicotomia, che lo porta a toccare picchi di intensa drammaticità alternati a toni lievi, che sfiorano la commedia. Che proprio mantenendo questo equilibrio tra toni sia riuscito a restituire la vera essenza di Elia.
Il Bene mio è stato presentato in concorso alla 75° mostra d’arte cinematografica di Venezia. Com’è stato accolto dal pubblico? E come hai vissuto l’esperienza tu quale giovane autore?
Presentare un film al Festival di Venezia è sempre un’importante soddisfazione ma anche una grande responsabilità. Ho vissuto l’esperienza con l’entusiasmo di chi vede il primo approdo dopo una lunga traversata. Affrontata con un gruppo di collaboratori eccezionali e sorretto da una produzione che non ha mai smesso di credere in me e nel progetto. Il Festival di Venezia, i calorosissimi applausi e le lacrime di commozione del pubblico alla fine della proiezione, sono stati un premio per il film e per tutti i miei compagni di viaggio.
Il Bene mio riesce ad amalgamare in maniera piuttosto equilibrata situazioni comiche e drammatiche allo stesso tempo. Quasi volessi alleggerire la malinconia del racconto.
Sono molto felice che questo aspetto del film emerga. Da sempre nelle mie storie ricerco il contrasto dei toni, il chiaroscuro, anche piuttosto spinto. L’ho fatto persino parlando di un tema spinoso come la morte e il suo culto nei film documentari realizzati su Pinuccio Lovero. Il custode di un cimitero in cui non arrivano più defunti. Mi piace il paradosso, lo cerco anche nel dramma più profondo. Le storie, i personaggi e persino i luoghi che mi ispirano e che mi interessa raccontare, non possono prescindere da questa commistione di sentimenti e tonalità.
Ti faccio i complimenti per la regia, l’ho trovata elegante e contemplativa in alcuni punti. Quali sono le tue maggiori fonti d’ispirazione a livello cinematografico?
Prima di tutto ti ringrazio. Ho cercato di restituire e preservare il più possibile il senso di isolamento di Elia a Provvidenza. Ho preferito spesso affidarmi al campo lungo e muovere la macchina da presa solo quando necessario e in modo funzionale al racconto. Riguardo alle fonti di ispirazione, mi è sempre molto difficile rispondere a questa domanda perché non ho mai volutamente ricercato l’ispirazione in film di altri registi. Ho un approccio molto istintivo con le storie e cerco di dare sempre un’impronta molto personale. Detto questo è inevitabile che tutto quello che si è visto e amato nel corso degli anni, da Herzog a Haneke passando per Kaurismaki e Scola, poi rientri, anche inconsapevolmente, nei propri film.
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