Maniac è la nuova miniserie e soprattutto l’ultimo fenomeno mediale su Netflix. Ma come si può definire Maniac?
Lo show tratto dall’ononima serie norvegese, è tutto e di più. Dramma, thriller, commedia, con un’ambientazione fantascientifica e uno stile vario, è un prodotto difficile da inquadrare. È proprio questa la sua particolarità più evidente, il suo essere disorientante e un po’ imperscrutabile, senza avere l’obiettivo o il desiderio di spiegarsi, ma solo di colpire con la sua essenza, e qui osiamo, unica. Cary Joji Fukunaga, già acclamato per la direzione di True Detective, si dimostra capace e visionario. Maniac al contrario del thriller diretto in precedenza è luminoso e vibrante, folle e vario, ma non per questo meno valido o d’effetto.
Ambientato in una New York che si fatica a riconoscere, esteticamente immersa nella fine degli anni ’70 ma con una tecnologia di gran lunga più avanzata che suggerisce essere 80 anni avanti rispetto a noi. Un mondo che sembra essere una realtà alternativa dove gli anni ’80 non hanno mai smesso di influenzare il progresso, non solo stilistico, ma soprattutto ideologico. La tecnologia ha sviluppato quelli che all’epoca erano aspetti reconditi dell’immaginario popolare, robottini che puliscono le strade, pupazzi con cui giocare a scacchi e viaggi nei meandri della nostra mente grazie ad un computer senziente. E ciononostante non è questo l’aspetto più strano di questo universo incollocabile.
Il sogno americano ha raggiunto livelli preoccupanti e angoscianti, creando una cultura aziendale soffocante dove l’acquisto di prodotti è richiesto, ancora ed ancora.
Le pubblicità retrò sono onnipresenti, con il loro luccichio accecante; e se per una piccola spesa non avete spiccioli sufficienti nessun problema, basta richiedere un Ad Buddy: un distopico venditore porta a porta che coprirà la vostra spesa, in cambio della vostra attenzione alle sue assurde pubblicità.
In un mondo che ha raggiunto l’apice del consumismo e degli estremi pubblicitari, appare chiaro un motivo alienante in mezzo a questo caos: i nostri personaggi sembrano essere soli, distaccati. Inevitabile che in una società simile sembra essere un grosso problema, e un grande affare, riportare le persone ad una pace interiore, aiutandole a ritrovare serenità e dei legami reali.
Qui entra in scena Owen Milgrim (Jonah Hill). Owen viene licenziato a causa della sua condizione. Owen è schizofrenico, vede persone che non ci sono e cose che non accadono. Ultimo figlio di una famiglia ricca e per cui il nome e la facciata valgono più di qualsiasi rapporto umano, Owen è rinchiuso in una prigione dorata; costretto nell’ombra e condannato a rimanere inosservato, quasi inesistente.
Spostandoci di qualche quartiere troviamo Annie Landsberg (Emma Stone), una ragazza turbata dal proprio passato alla ricerca compulsiva di pillole “A”. La misteriosa droga non si sa come agisca, ma è molto chiaro come aiuti Annie nel suo desiderio di fuggire. Quando la sua fuga in pasticca viene a mancare Annie diventa una cavia di un test farmacologico dove la pillola esercita un ruolo fondamentale. I personaggi, così entrambi fuori posto e soli, si incontrano in questo folle processo medico, dove Owen spera di poter trovare conforto e una fine alle sue visioni. Peccato che il primo approccio tra i due è dettato proprio dalle visioni di Owen, convinto che Annie sia la chiave di un modello ben definito, e che debba seguire le sue istruzioni per salvare il mondo.
Così inizia il loro viaggio in questa innovativa e rivoluzionaria cura. Un semplice processo dove 3 pillole prese in sequenza, a detta del loro creatore, riusciranno a sistemare qualsiasi problema che affligga la nostra mente. In 3 giorni i problemi saranno risolti senza effetti collaterali.
L’azione da qui si sposta totalmente nelle menti delle due cavie. Nei loro sogni in comune si ritrovano ad affrontare le loro paure, i propri problemi e la vera essenza di sé.
È un viaggio non solo per comprendere se stessi, ma per accettare ciò che si è. È in questi segmenti che Fukunaga dà il meglio di sé, mischiando generi e dando vita a storie estremamente affascinanti. In un turbinio di generi e mondi si ritrova un’ironia molto vicina a quella dei fratelli Coen, capace di emergere e strapparci un sorriso nei momenti più drammatici e assurdi. E di questo i meriti vanno tutti a Fukunaga e Patrick Sommerville, abilissimi nella scrittura.
Ma in ogni mondo in cui si ritrovano a vagare un elemento ricorrente si presenta più e più volte; frammenti della loro realtà. Non solo nel peso del passato familiare che trascinano dietro di sé, vero nemico da sconfiggere per i due protagonisti, ma anche in piccoli dettagli e personaggi. I sogni divengono così l’occasione per confrontare la propria essenza e riparare i propri errori se si dimostra di averne la forza.
Anche se questi sogni non danno il tempo di compiere una vera e propria catarsi, lanciandoci in un altro mondo senza preavviso, elementi dei sogni precedenti danno vita ai seguenti, come in un gioco di scatole cinesi dove il vagare è confuso dalla provenienza dei ricordi. Un sogno condiviso dove non tutto è creato dalla propria mente, producendo ancora più confusione nei protagonisti, una dannata confusione.
Maniac è intricato ma non narrativamente, perchè quella proposta è una confusione emotiva. Il Dr. Mantleray, capo del progetto e interpretato da un fantastico Justin Theroux, nel dare una spiegazione alla creazione della vita parla di “un’orgia infinita di materia ed energia che sfregano, urtano e macinano insieme” e continua spiegando come “Non ci sarebbe vita senza collisioni di corpi celesti“, per poi sottolineare come la creazione di tutto può essere un caso, o inevitabile.In tutto questo una forza vince su tutte le altre, una forza intangibile ma potentissima: il potere delle nostre connessioni.
Una verità che non solo vale nella scienza, ma anche per il nostro cuore. Nessuno spoiler, sia chiaro, questa frase è l’introduzione del primo episodio; ed è un trucco abilmente messo in atto. Maniac viaggia abilmente tra i suoi mondi e le sue situazioni allo stesso modo in cui il Dr. Mantleray esordisce con questo suo iniziale discorso, dandoci la chiave di lettura per tutta la serie. Quello che conterà davvero non è il dare una spiegazione ad ogni singolo aspetto, ma le connessioni che si creeranno nella serie e tra noi e quest’ultima. È un invito ed una presa di coscienza per il viaggio che ci aspettiamo a compiere, dove bisogna lasciarsi catturare e vivere le situazioni e le emozioni dei protagonisti. Emozionarsi sarà l’unica cosa che conta.
Ed è questo che affronteranno i nostri protagonisti, alla ricerca di una risoluzione dei loro drammi interiori e familiari. Lo stesso James Mantleray, che ricorda vagamente un Andy Warhol dedicatosi alla scienza neuronale, costruisce il robot psicologo senza rendersi conto di fare inavvertitamente leva sui suoi problemi con la madre, una Sally Field in forma smagliante, un’autrice di numerosi libri sulla psiche che hanno riscosso un successo planetario. La macchina dal nome GRTA, richiama inevitabilmente il nome della madre di James Greta. Prevedibilmente nei fatti, ma non nelle motivazioni, la macchina assumerà il ruolo del classico HAL 9000.
E da qui Maniac diventa qualcosa di incontrollabile ed esilarante. Un dramma distopico, dove una farmacologica fantascienza gioca con la fantasia dei nostri sogni e i nostri demoni interiori; decisamente un approccio unico.
Nel complesso Maniac è un’ottima miniserie, ambientata e guidata con sapienza da Fukunaga. Nel finale qualcosa si perde dal punto di vista dell’imprevedibilità, a causa anche del sistema narrativo a cui ormai ci si è già abituati. Ma questa mancanza di sorprese è sempre ottimamente contrastata da un umorismo assurdo che irrompe nei momenti meno adatti. Humor inaspettato e a cui non bisogna dare troppo peso o giustificazione, d’altronde ci troviamo sempre in delle fantasie ed è capitato a tutti di ritrovarsi in delle situazioni assurde nei propri sogni. È forse questa assurdità che potrebbe infastidire alcuni spettatori, accusandola di una grave colpa: non lasciarci esplorare in profondità i personaggi.
Ma Maniac non ha bisogno di avere una risposta concreta e certa a tutto. D’altronde analizzando la psiche umana, soprattutto di personaggi instabili, e lasciando che quella stessa psiche crei i limiti narrativi, si comprende come il mondo presentato debba solo essere osservato attentamente; cercando di carpire da ogni piccolo dettaglio, la natura e l’essenza di Owen ed Annie. Ma questo non signfica che otterremo tutte le risposte che cerchiamo, d’altronde nemmeno loro ne sono certi.
Maniac si pone come primo obiettivo l’emozione, rischiando di essere quasi sdolcinata. Ma è quello che è, una favola che racconta la solitudine di persone che cercano di mettere ordine nella follia della vita. Con un’introduzione che si comprende appieno solo dopo aver terminato la visione, Maniac ci lascia un messaggio: le connessioni che creiamo tra noi sono forse tutto ciò che conta, e sono quelle ad attuare un vero cambiamento.
Se avete voglia di emozionarvi e divertirvi senza voler mettere i puntini sulle i Maniac è la serie perfetta. In caso contrario, nemmeno la scimmia ha una pillola per risolvere il vostro problema.