Ride – intervista a due degli esponenti del nuovo cinema italiano

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Ride intervista agli autori Fabio&Fabio, tra gli autori più interessanti del panorama cinematografico del cosiddetto “Nuovo cinema italiano”, portando con sè tutta una voglia di sperimentare e un gusto internazionale. Si sono fatti conoscere al grande pubblico con il film “Mine”, per i quali li abbiamo già incontrati una volta (QUI la nostra precedente intervista). E ora sono tornati con lo scatenatissimo Ride (QUI la nostra recensione senza spoiler), li abbiamo incontrati di nuovo con piacere, ed ecco cosa ne è uscito.

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RIDE

Innanzitutto siamo curiosi di sapere com’è nata l’idea di questo progetto, che può sembrare assurdo. Abbandonare le telecamere tradizionali e girare un film interamente tramite GoPro, action cam, droni.

Jacopo: Un anno e mezzo fa i Fabio, che conosco e con cui collaboro da tempo, mi hanno chiesto se ero interessato a girare un film interamente con le Gopro. Un’idea che avevano da qualche anno e che stavano sviluppando insieme allo sceneggiatore Marco Sani. Ho da subito capito che era un progetto con un grande potenziale e con un’enorme dose di follia. Mai nessuno aveva ancora realizzato un film simile e questo per me è stato il motivo principale per cui ho deciso di accettare.

Fabio: Sì, il tutto nasce dall’idea di fare qualcosa di diverso. All’inizio doveva essere tutto molto più semplice, una sorta di Duel sulle bici, uno slasher found footage girato in GoPro. Poi abbiamo aggiunto pezzo per pezzo i tasselli di quello che è diventato un universo vasto e oscuro.

Quali sono state le difficoltà incontrate durante la produzione e la lavorazione di un film del genere? Dover gestire oltre 20 action cam, stuntmen, in una location del genere. In una totale situazione di sperimentalismo, qualcosa credo di mai tentato simile, almeno in Italia, e di una tale portata.

J: Le difficoltà sono state tantissime, soprattutto perché le Gopro non sono camere fatte per fare cinema. Quindi abbiamo dovuto adattarci sul set sia dal punto di vista tecnico che organizzativo per riuscire a gestire questa enorme mole di punti macchina. Abbiamo fatto parecchi test prima delle riprese per chiarirci le idee. Appurando che avremmo avuto un controllo solo parziale della situazione e che saremmo stati costretti ad improvvisare molto di volta in volta. In più il fatto di girare in esterni con condizioni di tempo variabile non ci ha sicuramente semplificato la vita.

F: Per fare questo film ad ogni step abbiamo dovuto capire come procedere. Sin dall’inizio, sin dalla scrittura. Se, per esempio, nel film volevamo vedere qualcosa o farla vedere allo spettatore. Avremmo dovuto assicurarci che  un personaggio sarebbe stata vicino ad inquadrarle con le GoPro che aveva addosso! E quindi la scena andava anche scritta in base a quello che volevamo vedere sullo schermo. In fase di ripresa poi abbiamo dovuto nasconderci nel bosco di continuo, perché il campo ripreso dalle camere era praticamente a trecento sessanta gradi. Quindi eravamo mimetizzati nel bosco e quando non riuscivamo a mimetizzarci siamo stati cancellati in post-produzione. Per non parlare del montaggio, 20 punti macchina per ogni scena, moltiplicato per 5 settimane di riprese. Un’impresa titanica e snervante. Per montare alcune scene in cui nell’ambiente sono presenti degli specchi abbiamo dovuto disegnarci uno schema per capire dove fossero posizionate le videocamere. Un delirio vero e proprio. Penso che nessuno abbia mai fatto una cosa del genere.

Ride

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Negli ultimi anni il cinema italiano si è popolato di figure di giovani autori, dal gusto decisamente internazionale, quasi americano, per il cinema stesso. Ovviamente penso a voi, ma anche a Sibilla con il suo “Smetto quando voglio”, a Mainetti e “Lo chiamavano Jeeg Robot” e tanti altri. Credete si sia sviluppata una tendenza allo svecchiamento, o anche solo un cambiamento di rotta, del modo di fare cinema nel nostro paese? Ancorato a certi schemi, stilistici e tematici, e quindi il desiderio di superarli.

J: Credo che il gusto e le esigenze degli spettatori siano mutate negli ultimi anni,  grazie soprattutto ad internet e a canali tematici. Che fino a non molti anni fa non davano la possibilità al pubblico di affacciarsi su universi cinematografici lontani dalle classiche produzioni italiane. La risposta del pubblico ai film che hai citato è la prova che ora c’è fame di contenuti con un taglio più internazionale e che le acque si stanno smuovendo non poco.

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F: Più che una tendenza, almeno ora c’è una volontà. Il cambiamento non è ancora sistemico, ma affidato ad un manipolo di autori che hanno la testa dura. Se una rete di produttori riuscirà a sostenerli, ed avremo due o tre film come “Ride” all’anno. Allora potremo finalmente dare un senso a quell’etichetta che negli ultimi anni si usa molto: “Nuovo cinema italiano”.

A tal proposito come vi siete mossi da un punto di vista puramente produttivo? Si penserebbe che la cinematografia italiana sia legata a dinamiche produttive che ormai stagnano nel tentativo di riversare sul mercato i soliti prodotti per un pubblico diseducato. Ma “Ride”, distribuito tra l’altro da un colosso che è Lucky Red, dimostra che non è così, che c’è voglia di innovazione.

J: si, c’è voglia di mettersi in gioco e di rinnovare anche nell’ambito produttivo e di marketing come conseguenza a prodotti come Ride. Che per forza di cose non puoi inquadrare e lanciare sul mercato in modo classico. In questo gente come JJ Abrams, Spielberg o  Lucas ci hanno insegnato molto. Va solo trovato un po’ più di coraggio di osare da parte delle produzioni e poi sono convinto che i risultati arriveranno. Si tratta solo di superare questo momento di transizione in cui bisogna togliersi un po’ di polvere di dosso e uscire dalla “comfort zone”.

F: Lucky Red ha da subito creduto in questo progetto. La loro line up di progetti in sviluppo sicuramente testimonia la volontà di produrre cinema e tv su un piano inedito e internazionale. Certo, non è facile scontrarsi con film americani. Che quando arrivano da noi hanno già beneficiato di marketing su scale incredibili e qui arriva praticamente a costo zero, anche di riflesso. “Ride” è partito da zero, dall’Italia. Sarà interessante vedere il suo percorso internazionale, sempre grazie a “True Colors”, compagnia affiliata a Lucky Red.

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Gianni Canova ha detto “C’è più sperimentazione e più ricerca qui che in tutto il cinema italiano visto a Venezia”. Quindi anche se il vostro film sembra dare le spalle ad una tradizione cinematografica italiana, viene comunque lodato da un critico della vecchia leva come Canova. E quest’affermazione è un po’ come una legittimazione, l’essere lodati da un personaggio che è un po’ uno statuto nel settore in Italia.

J: In realtà non stiamo dando le spalle a nessuno; anzi stiamo tornando ad un certo tipo di approccio al cinema che negli anni ’60 e ’70 era molto in voga in Italia. Basti pensare ai poliziotteschi, ai western, alle commedie drammatiche o surreali. Tutti generi che si sono persi negli ultimi 30 anni ma che hanno ispirato grandi autori internazionali rendendo la cinematografia italiana celebre nel mondo. Ci stiamo semplicemente riprendendo quello che ci siamo dimenticati di saper fare.

F: Riempie d’orgoglio l’essere riusciti a creare qualcosa di apparentemente superficiale ma in realtà molto complesso e stratificato, e non solo nella forma, come rilevato da alcuni critici. Non ci aspettavamo un tale plebiscito di recensioni e articoli, che testimoniano il fatto che, pur partendo da GoPro e Droni, siamo riusciti a fare del Cinema. Forse addirittura più sperimentale che di genere, ma cinema. Le parole di Canova ci hanno colpito e incoraggiato. Mi piacerebbe che dopo tanti Jeeg, tanti Veloce come il vento, tanti Mine e tanti Ride. Questo modo di fare film diventi una norma nel cinema italiano, così come lo è stato per anni in Spagna o Francia.

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La voglia di sperimentazione è principalmente tecnica e stilistica, ma Ride è interessante anche da un punto di vista narrativo. Il metodo di scrittura permette di sconvolgere, in alcuni momenti, la prospettiva del pubblico, e quindi di farlo dubitare. Questa, a mio parere, è una tendenza del cinema contemporaneo, di rendere inaffidabile lo sguardo del cinema stesso, rendendo inaffidabile e dubitabile la stessa realtà diegetica.

J: Ride parla anche di questo, del rapporto delle nuove generazioni con la tecnologia e di come spesso la realtà non sia quella palpabile ma la sua rappresentazione attraverso i social. Realtà e finzione ormai si mischiano in continuazione e Ride gioca su questo cortocircuito. Che per me è fondamentale perché costringe lo spettatore a lavorare e ad immaginare diversi scenari anche dopo la visione del film.

F: Il film vive proprio in quegli anfratti della trama che abbiamo lasciato poco chiari ma non per questo confusi. Non abbiamo esplicitato le connessioni tra i puntini, così che il pubblico possa farsi il proprio viaggio, la propria “corsa”. In questo, siamo ormai tutti figli di Lost, che ci piaccia o meno. In Ride però questa dicotomia è appunto non solo un orpello da mindfuck, ma si presta ad un matrimonio tra forma e sostanza, considerata la tematica.

Il film è stato accolto, principalmente, con grande favore ed entusiasmo, proprio la sua natura, che cela una grande voglia di sperimentare. Vi sentireste di dire di aver abbattuto una barriera del modus operandi cinematografico? Vuoi o non vuoi il cinema sta cambiando sia nella forma, che nel contenuto, e cambia anche come forma di spettacolo. E voi state prendendo parte a questo cambiamento.

J: Abbiamo innegabilmente cambiato in parte le regole del cinema tradizionale. Ma la cosa importante è che siamo comunque riusciti a raccontare una storia coinvolgente per il pubblico e la critica. Questa rimane per me la cosa più importante, altrimenti sarebbe solo un esercizio di stile fine a se stesso.

F: In realtà c’è molto più cinema tradizionale in Ride che in altri film, solo che è nascosto. Da un punto di  vista tecnico ad esempio, nonostante le mille camere, le regole del montaggio classico sono seguite con consistente continuità. E quando sono aggirate è proprio perché appunto di base nel film le abbiamo seguite, solo che non sembra. Perché è tutto camuffato da reality show. Ma se non le avessimo seguite, di sicuro lo spettatore avrebbe provato sensazioni molto più estranianti.  Anche per quanto riguarda la storia, abbiamo seguito la struttura narrativa classica, nello specifico quella di un horror, e abbiamo utilizzato tutti gli elementi narrativi classici del cosìdetto viaggio dell’eroe. Quando abbiamo rotto delle regole, ne abbiamo create di nuove, che andavano inevitabilmente a rafforzare quelle vecchie, perché quelle vecchie sono eterne, perfette. E’ una sorta di loop. Penso che il film sia stato accolto con così tanto entusiasmo sia per il suo mix inedito di elementi, sia per la forza che contiene. E’ un film potente, una bestia viva, un viaggio pop nell’oscurità dei tempi  che stiamo vivendo, e soprattutto un’esperienza audiovisiva in un mondo nuovo.

Cosa vi sentiresti di rispondere ai nostalgici e a chi grida “il cinema è morto”? Oggi, a me, sembra più vivo che mai.

J: La gente è morta, il cinema è più vivo che mai.