Abbiamo incontrato Rancore con una chiacchierata a cuore aperto. Ne è venuta fuori un’intervista veramente molto piacevole e con notevoli risvolti.
Un album intimo, profondo e personale. Con Musica Per Bambini, Rancore si racconta e ci racconta il grido del bambino che c’è dentro di lui. Un grido che non viene raccolto da nessuno perché non viene capito. E la mancanza di comunicazione, l’afasia di questa società odierna, è la cosa che l’ha portato a buttare giù queste rime graffianti. Come solo Rancore sa fare. Forse è questa la sua consacrazione o forse è solo l’inizio.
Da Tufello al disco Musica per Bambini. Quanto è cambiato Rancore e cosa è cambiato in lui?
Le cose sono cambiate totalmente dal giorno alla notte, o dalla notte al giorno. In primis sono cambiato, quando scrissi tufello avevo 15 anni, nel mezzo ho detto tante cose e ho portato la scrittura a livelli altissimi che nemmeno io mi sarei immaginato. Come quando guardi Dragonball: tutta la prima saga è incentrata sulla terra e poi, in Dragonball Z, vanno su altri pianeti. E non lo avrebbe mai immaginato nessuno.
In Tufello poi parlavo di ciò che avevo intorno, la realtà circoscritta che mi circondava. Oggi con la scrittura rompo la realtà, la supero e la racconto con musica per bambini. Il che è paradossale perché ero un bambino con tufello. Il livello di pericolosità della mia scrittura è aumentato perché vado oltre le cose che gli occhi vedono. Rompo le cose che vedo e ci entro dentro.
Questo pianeta è forse la traccia più emblematica del disco, in cui comunque butti fuori l’assenza di comunicazione che c’è oggigiorno. L’ultima frase del brano e del disco è Non capisco una parola di ciò che dici. È il mondo a non capire Rancore o è Rancore a non capire il mondo?
È il mondo a non capire il mondo. Sono escluso da un mondo che non riesce a capirsi, la non comunicazione del mondo non la sento solo io. Non esiste più comunicazione, è complesso parlare tra due persone. C’è un’alienazione di una realtà troppo veloce che ci circonda e ci chiudiamo rispetto al bombardamento che subiamo.
Non c’è fiducia verso il prossimo, gli Stati non si fidano degli altri, ci si chiude e si va contro gli altri. Ci sono più muri creati che muri rotti. Il virtuale rompe i muri ma nella realtà non è così. Non riesco a parlare con nessuno, io come gli altri. E questo problema diventa sociale, politico e tecnologico.
Quali artisti o personalità ti hanno formato e quale è stato il tuo primo approccio alla musica?
La mia vera ispirazione viene da una ricerca interna più che esterna, senza cercarla troppo da fuori. Ho nominato spesso Manu Chao, artista con cui sono cresciuto da ragazzino. E per alcuni versi mi rispecchia, un personaggio che ho sempre tenuto nel cuore. Nel rap, Dre ed Eminem, loro sono le due principali fonti d’ispirazione per metrica, rime ed immaginario rap.
Tre dischi e tre film che ti porti su un’isola deserta?
The Truman Show, visto che Carrey vive una grande solitudine e magari può aiutarmi. Poi una versione vecchia di Robinson Crusoe, così da farmi capire come si sopravvive in senso pratico. E infine Matrix perché mi aprirebbe la mente. Poi come disco direi il nuovo di Eminem, che ancora me lo devo ascoltare per bene. Uno dei Manu Chao, così per nostalgia e uno dei Tool. Aspetto quello nuovo però.
Un nostro lettore, discutendo del disco, mi disse “dopo averlo ascoltato vorrei tanto chiedergli come stai?”. Cosa rispondi?
Solitamente tendo a dipingermi meglio di quanto stia realmente, ho un po’ questa paranoia. Se ti dico che sto bene, tu ci credi, così come se ti dico “io spacco”, tu ci credi. E forse ci credo anch’io di riflesso. Dentro di me ho un bambino che piange, che perde le speranze, un bambino che urla e che è disilluso rispetto al mondo. Sono disilluso, in quel senso lato che è presente nel disco. Ricerco qualcosa che però non trovo. Questo disco mi ha aiutato a far scappare i mostri ma sono troppi.
Come vedi l’ascesa della trap?
Non mi sento di poter dare un mio parere, dipenderà dal futuro e dalla piega che prenderà la trap, alla sua evoluzione e di come affronterà l’attitudine. La vedo come un normale scorrere, teoricamente un’evoluzione ma per capire bene bisogna aspettare. In seguito potremmo dire se sarà un genere o una parentesi.
Una delle tue canzoni più belle è S.U.N.S.H.I.N.E. e non ho potuto fare a meno di notare l’uso di Adagio in D minor di John Murphy, colonna sonora proprio di Shunshine di Danny Boyle. Come mai avete fatto questa scelta? C’è qualche correlazione tra la concezione del testo ed il brano di Murphy?
Uno dei motivi perché un’opera di classica fatta nella modernità. All’epoca, la classica era affiancata alle opere teatrali. Oggi lo stesso tra musica e cinema, e Muphy è un esempio di questa classicità moderna. L’idea di prendere Murphy è stata di Dj Myke. Il testo è slegato dal film ma c’è qualcosa di Sunshine, in particolare tossicità del sole che porta i personaggi del film ad una progressiva follia mano a mano che ci si avvicinano, finché non trovano quella “divinità” a protezione.
Come la follia che permea Il Teorema del Delirio di Aronofsky, in cui Maximilian Cohen rimane cieco per due settimane dopo aver fissato il sole a lungo. Nel momento in cui vai oltre la natura, non è detto che essa non abbia una protezione, degli antivirus pronti a proteggerla. Quando guardi il sole senza considerare quello che fa, in realtà ti dimentichi della sua funzionalità e rischi di farti del male. E questo parallelismo è anche un po’ la condizione dell’artista venerato in toto. Una venerazione che poi non porta a vedere quello che fa e quello che dice.
In Depressissimo parli di una condizione clinica odierna abbastanza comune. Quale potrebbe essere una soluzione a questo problema collettivo?
Il problema si potrebbe risolvere tutti insieme ma insieme non riusciamo a starci. Inevitabilmente questo porta ad una rottura. La depressione si può adattare anche un campo geo fisico. Perché quando il terreno che hai sotto i piedi subisce una depressione, tu cadi, ti perdi e ti depersonalizzi.
Questo screzio, questo stupro che ci fa la Terra, ci porta ad intossicarci e logorarci poco a poco. La crisi economica odierna è una forma di depressione che riguarda la collettività, non necessariamente il singolo. Le varie caratteristiche del termine “depressione” sono comuni anche alla depressione clinica del singolo. Abbiamo un vuoto perché non riusciamo a trovare l’umanità che colma il nostro vuoto generato dalla depressione, un vero alieno che controlla le persone. Conosce le debolezze e ti tiene sotto controllo.
Dire che uno è depressissimo senza avere la paura di essere deriso, è un modo per dire “questo vuoto me lo colmo da solo scherzando sulla mia identità e mi proteggo dagli attacchi del mondo intorno a me e che mi toglie il terreno sotto i piedi” e mi proteggo. Siamo in un periodo in cui l’Italia è depressissima e spero che attraverso l’autocritica ed analisi si riesca a capire l’essenza e colmare il vuoto che abbiamo intorno e dentro di noi.