C’è stato un tempo in cui il cinema di genere, in Italia, era cosa molto seria.
Milano calibro 9 – Il grande cinema di genere italiano che oggi manca terribilmente – Dagli anni ’60 l’industria cinematografica italiana comincia ad espandersi, grazie al boom economico ed all’alta richiesta di nuovi film. Al fianco dei grandi autori ancora oggi decantati come Fellini, Rossellini e Pasolini nasce però un’ampia produzione legata ai generi cinematografici. Spaghetti western, horror e poliziotteschi invadono le sale italiane (e non solo, in certi casi) e diventano da subito amatissimi fra il grande pubblico.
Proprio al genere poliziottesco, seppur con contaminazione dal noir ed il thriller, appartiene uno dei capolavori di quell’epoca. Milano calibro 9 è un film del 1972 scritto e diretto da Fernando Di Leo, ispirato dai racconti di Giorgio Scerbanenco. Prima parte di una trilogia, resta uno dei punti più alti raggiunti dal cinema di genere italiano, se di genere ancora si può parlare.
Di Leo infatti prende gli elementi di un genere ben consolidato per costruire un discorso del tutto personale sul crimine, la violenza, la società e l’umanità . Milano calibro 9 è un film crudo, violento, un pugno dritto allo stomaco dello spettatore.
Milano: un traffico di valuta illegale finisce male e 300 mila dollari spariscono. Rocco (Mario Adorf), che doveva controllare l’operazione, comincia ad interrogare e torturare tutti i corrieri che hanno avuto il pacco fra le mani. Tutti tranne uno. Ugo Piazza (Gastone Moschin) viene infatti preso per una rapina e passerà tre anni in carcere. Al suo rilascio Rocco e l’Americano, il boss, accuseranno Ugo del furto, cercando in ogni modo di recuperare i soldi.
Una trama piuttosto semplice, che nasconde però nei suoi personaggi, spesso quelli secondari, una complessità di fondo. Tutti i personaggi hanno infatti un ruolo importante, non solo nel portare avanti la storia, ma danno modo a Di Leo di portare avanti un discorso sul mondo del crimine e la società del tempo.
I ruoli saltano, buoni e cattivi si confondono ed una spada di Damocle pende su tutti quanti.
Anche il mondo della malavita è cambiato, come nota Don Vincenzo, vecchio boss ormai decaduto e divenuto cieco. “La vera mafia non esiste più“, dice, facendo riferimento ad un cambiamento ormai irreversibile: ora ci sono solo bande che si combattono fra loro per il dominio della zona. Non esiste più un senso di onore, ma gli affari ed i soldi diventano l’unica cosa importante.
La Milano ritratta dal regista italiano vive, pulsa intensamente, non è solo uno spazio occupato dai personaggi splendidamente portati in vita. Diventa un vero e proprio personaggio, con il suo freddo invernale, la sua aurea asettica che avvolge con un patina grigia le persone che l’attraversano. Una città che prende vita, anche grazie alla splendida colonna sonora composta da Luis Bacalov.
Milano calibro 9 è un film che ridefinisce il limite fra genere ed autore, come solo i grandi registi sanno fare. Di Leo ha preso un genere per farne qualcosa di diverso, qualcosa di proprio. Un capolavoro che ha segnato la storia del nostro cinema e che ci viene invidiato da tutto il mondo. Non da ultimo, basta citare l’amore viscerale di un Maestro del cinema moderno come Quentin Tarantino, da sempre dichiarato amante del cinema di genere italiano e di Di Leo. Non è un caso che i due gangster di Pulp Fiction vengano in mente a Tarantino pensando ai personaggi del secondo capitolo della trilogia, La mala ordina.