E in un certo senso è proprio la paura a muovere le redini dell’opera d’esordio alla regia di John Carroll Lynch. La paura per l’acquistata consapevolezza dell’invecchiamento, dell’essere soli ed incapaci di badare a sé stessi. La paura del decrepimento del corpo, la paura che tutto svanisce restando con “nu cazz”, niente. È in fin dei conti la paura della morte, la paura comune a tutti gli uomini, quella forse anche dell’ignoto.
Ed è per questo che “Lucky” arriva così diretto al suo pubblico, condividendo con ognuno dei suoi spettatori un sentimento così intimo, come quello della paura. Sentirsi spaventati per qualcosa di inevitabile. Ma appunto perché è inevitabile, la si fronteggia e la si accetta con realismo, per quello che è.
Ed è quello che fa anche Lucky, il protagonista nonagenario, che d’un tratto prende coscienza della propria caducità.
Lucky, chiamato così dagli amici e vicini, abitanti della cittadina in cui anche lui abita, vive all’interno di pacifica e splendente solitudine. Assorto all’interno di una ciclica routine quotidiana, Lucky vive le sue giornate compiendo una serie di rituali che scandiscono il ritmo della sua esistenza. Ritrovandosi, poi, a vagare per le stesse strada dell’anonima cittadina nel deserto, frequentando gli stessi luoghi, le stesse persone. Con le quali sembra aver intessuto un profondo e sincero rapporto, seppur isolato ognuno a suo modo nella propria solitudine.
Ma è una solitudine di cui Lucky non sembra essere aggravato, spiegando esserci differenza dall’essere soli e il sentirsi soli. Il suo unico reale contatto con il mondo avviene attraverso lo strumento di un telefono rosso, tramite il quale parla con un ignoto amico. Con il quale si confessa, si mette a nudo, seppur in maniera inizialmente ermetica.
All’improvviso poi quella routine è interrotta da una sconvolgente e profonda verità che sbatte sul viso dell’uomo, si invecchia.
Lucky comincia ad avvertire sul proprio corpo e nel proprio spirito i segni dell’inarrestabile scorrere del tempo, e della solitudine, ora che non è in grado di prendersi cura di sé. Momento maggiormente struggente e apice di questo percorso è la chiamata notturna compiuta tramite quel telefono rosso, che non trova risposta dall’altro capo. Segnando lo sconforto per quella solitudine ormai avvertita con drammatica constatazione.
Ed è a questo punto che inizia, quello che potremmo definire, il suo viaggio spirituale. Che lo pone a contatto con la propria esistenza e la vita, acquistandone una rassegnata ma spensierata consapevolezza.
“Lucky” potrebbe essere considerato in un certo qual modo paradigmatico, se lo si considera in relazione all’attore che veste i panni del protagonista omonimo.
Di fatto sembrerebbe che il regista John Carroll Lynch avesse voluto omaggiare in tal modo il più grande attore caratterista della storia del cinema americano, Harry Dean Stanton, scomparso pochi mesi dopo la fine delle riprese. Lucky è Stanton, Stanton è Lucky. L’attore infonde nel personaggio la sua stessa essenza, e gran parte del suo vissuto; pare infatti che la casa in cui sia stato girato il film sia la stessa di Stanton.
“Lucky” potrebbe essere considerato il canto del cigno, per quest’attore che ha fatto la storia del cinema americano. Regalando ai suoi ammiratori un’interpretazione, come sempre, sincera ed immensa. Vestendo i panni di un uomo vecchio che si dirige inevitabilmente verso la morte. E per Lynch, Stanont si mette a nudo, metaforicamente e letteralmente, si sveste. Scoprendo la propria fragilità interiore ed emotiva, ma anche fisica. Mostrando i cedimenti del suo corpo, con tutti i segni della vecchiaia che porta su di esso.
E “Lucky” vuole essere proprio un affresco, un’ode, un omaggio anche alla vecchiaia e alla caducità del tempo, alla solitudine.
Ma guardando a queste cose col sorriso. “Lucky” è un’opera estremamente intima, delicata e crepuscolare, ma senza risultare malinconica o nostalgica. Numerosissimi poi sono i momenti riflessivi e spunti filosoficamente esistenzialisti, che inneggiano appunta all’acquisizione di questa consapevolezza. Ancora una volta, si invecchia. Il dialogismo può sembrare, ed è, totalmente sopra le righe, mancando in alcuni punto di sottotesto, diventando diretto e affascinante. Alcuni dei personaggi sembrano parlare per citazioni e aforismi.
Lynch in tal modo sembra strizzare l’occhio al cinema classico hollywoodiano, costruito di personaggi indimenticabili e portatori di valori. Ma anche al cinema di Lynch David, attraverso quegli scambi di battute che in alcuni momenti sembrano assolutamente surreali e inverosimili. Lo si potrebbe supporre data anche la presenza dello stesso Lynch all’interno del film, come uno dei personaggi, Howard. Innegabili anche i riferimenti stilistici e visivi allo stesso cinema di David Lynch, il quale potrebbe aver coadiuvato dietro la macchina da presa.
Una regia che richiama in alcuni tratti appunto il cinema lynchiano, per atmosfere, ed esteticamente. In altri momenti sono inevitabili i paragoni con Wenders e “Pari, Texas”, di cui Stanton fu protagonista.
Lo sguardo della telecamera si fa intimamente riflessivo e contemplativo, ponendo sotto il riflettore della propria lente la solitudine di un uomo, della sua casa nel deserto e la vastità dalla quale è circondata. Contemplandone appunta lo splendore, la bellezza e la quiete. Come se metaforicamente volesse simboleggiare attraverso l’immagine, appunto, l’interiorità di quell’uomo