Recensione – El abrazo de la serpiente di Ciro Guerra

el abrazo de la serpiente
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Il canto del cigno, il canto di un popolo, la tribù dei Cohiuano, celebrato dal suo ultimo discendente: Karamakate.

Ultimo membro della sua stirpe, Karamakate vive in uno splendido rancoroso isolamento. Auto-esiliatosi, vive ai margini di quel mondo che tenta di fuggire, in tono di protesta per lo sterminio dei suoi fratelli e sorelle da parte dei colombiani. Nascostosi nella folta selva della foresta amazzonica, Karamakate si fa depositario dell’eredità storico-culturale della sua gente. Mantenendo viva quella conoscenza e quei segreti, i suoi riti e lo stile di vita. In completa armonia con la natura che lo circonda, lo avvolge e se ne prende cura.

Ma quel mondo da lui ripudiato, quel mondo disconosciuto giunge a lui. Lo trova con la forma dell’etnografo ed esploratore tedesco Theo Von Martius, accompagnato dal suo aiutante Manduca, un indigeno ex schiavo di una piantagione di gomma, convertito agli usi e costumi occidentali.

el abrazo de la serpiente

Il regista colombiano Ciro Guerra sceglie di raccontare una storia vera, quella della spedizione del tedesco Koch-Grunberg all’inizio del ‘900.

Addentratosi nel cuore dell’Amazzonia per osservare, studiare e far conoscere al mondo le culture delle società precolombiane, insediatesi in quei luoghi e destinate a scomparire.  I diari di viaggio di Koch-Grunberg rappresentano ad oggi le uniche fonti e il testamento di quei popoli. Le cui storie, il cui passato, sono andati perduti. Lo spaccato narrativo permette inoltre di inquadrare un preciso momento di incontro e scontro tra due culture, tra due mondi. Ne scaturisce un confronto costruttivo, che permette a entrambe le parti di conoscersi, apprendere l’uno dall’altro e migliorarsi. Un’unione costantemente minacciata dalle perfide mira espansionistiche del capitalismo europeo, insediatosi in quelle terre.

Quello di Guerra non è un film pregno di significati sociali, né sociologici; non è un film documentaristico, né tantomeno un film di denuncia. La pellicola vuole porsi puramente come una sorta di affresco che permette di raffigurare un quadro storico. All’interno del quale trova spazio solo l’espressione di un pietoso senso di nostalgico rammarico per le culture andate perdute.

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Un’ode contemplativa e riflessiva assorta profondamente in tutto il suggestivo e sconcertante paesaggio amazzonico.

Osservato con sacro e attonito silenzio, immerso nei suoni e nelle suggestioni della foresta, con i suoi abitanti, e i fiumi Inirida e Varupes. Lungo i cui corsi i Karamakate, Theo e Manduca intraprendono il loro viaggio. La colonna sonora è interamente ricreata con suoni pacificatori e cullanti del mondo tutto attorno. Guerra produce un’opera quasi minimalista, che trova le proprie fondamenta nell’essenzialità della realtà messa in scena. Lo si evince anche dall’utilizzo di una fotografia in un magico bianco e nero, che trova nella scala dei grigi le potenzialità rappresentativa per una multiformità e multicromatismo percepibile anche nella sua assenza.

Un viaggio all’interno del cuore di tenebra del mondo. Che richiede come pedaggio purezza e distacco, e una totale armonia con la natura. Un ritorno al selvaggio, che renda capaci di ascoltare il mondo.

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Un viaggio allucinatorio che osserva attraverso lo sguardo dispregiativo di Karamakate gli orrori perpetrati dall’uomo bianco sulla sua terra. Un viaggio che si ripropone quarant’anni dopo. Evan Schultes, botanico statunitense, è sulle tracce della yacruna, pianta mistica descritta nei diari di Koch-Grunberg, di cui ne segue le orme. Shultes si imbatte proprio in un ormai invecchiato Karamakate, che si offre di accompagnarlo durante il viaggio, per ritrovare e riscoprire la sua memoria sopita, ritornando alle tappe del viaggio precedente. Allora il viaggio diventa ancora una volta strumento metaforico, un nuovo strumento ora di riscoperta e rivisitazione degli stessi luoghi.

Ma quei luoghi ormai ospitano le conseguenze delle azioni degli uomini bianchi, ma anche dei primi viandanti. I due trovano sul loro cammino, desolazione, delirio e perdizione. In un montaggio parallelo che alterna il passato e il presente, questi due momenti si incrociano e si legano da una sorta di valore continuativo e simultaneo.

Il tempo allora assume un forte significato all’interno del testo filmico, di cui Karamakate, con la sua memoria, è il solo testimone e custode.

Guerra si dimostra regista molto interessante, con una sorta di veneratrice staticità che contraddistingue il suo uso della macchina da presa nell’osservazione molto intima e affascinata della natura. Un tocco che ricorda a tratti Malick, per quanto riguarda l’inquadratura dell’occhio filmica e la sua scelta orientativa; ma anche i tedeschi Wenders e Herzog. Quest’ultimo in particolare nella rappresentazione di un personaggio e una situazione fitzcarraldiane, nell’esasperata e ossessiva ricerca del proprio desiderio. Insomma atmosfere che affascinano per la veridicità e chiarezza delle sue rappresentazioni. Un’opera che non offre ragionamenti e riflessioni, ma che si costruisce sulla potenza visiva ed estetica di uno sguardo proiettato sulla bellezza poetica del mondo. Â