Gli Alice in Chains non fanno nulla di nuovo, ma per fortuna non si sono ancora ridotti all’auto-parodia.
Gli Alice in Chains sono uno dei grandi gruppi sopravvissuti degli anni ’90. Rainier Fog è il terzo album del loro nuovo corso, inaugurato con l’accoglimento nella band del cantante e chitarrista William DuVall. Nuovo corso che non si oppone al vecchio, quello grunge con Layne Staley, ma ne costituisce la prosecuzione.
Cosa dire di Rainier Fog. Prima di tutto, si tratta di un album che sicuramente piacerà ai fan storici della band, i quarantacinquenni/cinquantenni che nel 1992 ascoltavano Dirt. Con Dirt, il capolavoro della band nell’era del grunge, non c’è però neppure da fare un confronto. Se i decisi e sempre benvenuti riff di chitarra di Jerry Cantrell fanno ancora la loro parte, e le armonizzazioni vocali sono più raffinate che mai, è anche vero che nel disco non c’è molto altro.
La parte migliore di Rainier Fog è la parte heavy metal, quella più brutale e rumorosa; molto meno notevole la parte grunge, fatta principalmente di rimasugli, auto-citazioni e ricordi sbiaditi di uno stile ormai tramontato. Gli Alice in Chains non hanno mai cambiato suono, non hanno mai sperimentato più di tanto, non hanno mai provato a introdurre influenze estranee al loro sound. Anzi, col passare degli anni, semmai è scomparso qualcosa, e cioè la componente funk chiaramente udibile nei primi due album della band pubblicati negli anni ’90.
Se si sceglie di vedere Rainier Fog non solo come l’ultimo album di una storica band grunge, ma come un album di heavy metal moderno, con uno stile particolare e preciso che fa capo a Jerry Cantrell, l’ascolto migliora decisamente. D’altra parte, gli Alice in Chains si sono già ampiamente guadagnati il loro posto nella storia del rock. Ragione in più per “perdonare” loro la scarsa volontà di proporre musica “nuova“. E ragione per lodare, d’altra parte, la loro capacità di continuare dignitosamente l’attività discografica riuscendo a non auto-parodiarsi.