La montagna, la miseria e l’istinto di sopravvivenza umana.
La ballata di Narayama – Sono questi alcuni elementi dell’equazione dello splendido film di Shohei Imamura. Il regista nipponico ci porta in un villaggio sperduto fra le montagne nel 1800, dove l’uomo è ancora fortemente legato alla natura e, soprattutto, è spesso dominato dai suoi istinti.
Nel piccolo villaggio rurale di Shinshu, per legge, al raggiungimento del settantesimo anno di età i figli sono tenuti a portare i loro genitori sulla montagna Narayama per lasciarli morire. Un modo per dover sfamare una bocca in meno, ma anche una tradizione secolare per cui le anime dei propri cari si congiungono dopo la morte sulla montagna. Orin (la straordinaria Sumiko Sakamoto), matriarca prossima alla fatidica età, passa il suo ultimo anno di vita a sistemare i suoi figli, anche se ancora perfettamente in salute. Il film è ispirato dai racconti di Fukazawa Shichirō e dal precedente film sullo stesso tema di Keisuke Kinoshita, La leggenda di Narayama.
Il film di Imamura si distingue per l’estrema freddezza con cui racconta un anno nella vita di un villaggio come, presumibilmente, ce ne furono molti in Giappone. Uno sguardo antropologico, quello del regista, su di una società ancora molto arretrata, alle porte dell’epoca moderna, fondata sull’agricoltura di sussistenza e regolata da leggi che sembrano appartenere più al mondo selvaggio della natura che a quello della civiltà umana. Gli uomini non hanno pietà dei loro vicini, che spesso condividono con loro le stesse miserie. Non riescono a guardare oltre il proprio orto, ad unire le forze contro le avversità della natura che li circonda. Quando una famiglia verrà scoperta a rubare cibo per non morire di fame durante l’inverno, sarà deciso di seppellirli vivi. Non esiste alcuna solidarietà, tutti sono lasciati soli a lottare contro il mondo esterno.
L’uomo non è altro che un animale, ci fa notare Imamura.
Ma oltre che con le parole ed i fatti che ci presenta, lo fa utilizzando un espediente visivo molto forte. Il regista ricorre più volte ad un montaggio analogico, inframezzando le azioni dell’uomo con quelle degli animali che li circondano. Un uso magistrale della tecnica, degna del Maestro Ejzenstejn che altro non fa che sottolineare visivamente un discorso di fondo che tornerà più volte. Si serve inoltre di poche parole, affidando spesso alcune scene chiave ad un silenzio protratto nel tempo, come nei momenti finali, quando il figlio porterà l’anziana donna in spalle su per la montagna. C’è qualcosa di sacro in questo viaggio, qualcosa che non potrebbe essere descritto a parole. Orin, con grande rassegnazione, accetta il suo destino, mentre il figlio ne è sempre meno convinto.
Imamura usa una regia estremamente elegante, tipica di un certo tipo di cinema nipponico, ma lo fa per raccontare una storia dai tratti brutali. Un contrasto tra forma e contenuto che non fa altro che sottolineare le storture di una società e la durezza della vita nel villaggio. Gli spettacolari scenari del villaggio nella quattro stagioni dell’anno diventano lo sfondo per una storia cruenta e dura. Lontana insomma dai caratteri elegiaci di molto cinema giapponese e, a tratti, difficile da sopportare, con alcune scene particolarmente intense e crude.
Le pulsioni dominano gli uomini quando la vita diventa difficile.
Imamura non esita a metterle in primo piano, anche quando si tratta di quelle sessuali, che spesso somigliano più a stupri che a rapporti consensuali. Ulteriore dimostrazione di una brutalità umana che viene fuori quando l’ambiente circostante diventa più ostile.
Un istinto di sopravvivenza che ci fa regredire ad uno stato primitivo, dove le leggi create da noi stessi diventano nulle e vengono superate continuamente quando in ballo c’è la sopravvivenza. La presenza costante della montagna fa da perfetto collante ad un film cupo, che scava nel profondo dell’animo umano, più di quanto non si possa notare ad uno sguardo superficiale. Un continuo ricordare, a chi dovesse per caso dimenticarselo, che non si può sfuggire alla morte.
Una perla imperdibile da un maestro del cinema asiatico, vincitrice della Palme d’Or a Cannes nel 1983.