Focus Musica: il jazz-pop di Miles Davis negli anni ’80

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Cosa succede quando il jazz diventa pop? E quando a farlo è il più grande artista del genere?

Gli anni ’80 rappresentano l’ultima fase nella carriera lunga e variegata di Miles Davis. Carriera che, per inciso, si conclude con la sua morte nel 1991, all’età di 65 anni e dopo decine e decine di album. A chi conosce il jazz è noto che Miles Davis è stato tra i musicisti più prolifici del genere, passando per lo stile cool, il jazz modale, il post-bop, la third stream e poi la fusion.

Finiti gli anni ’70, Miles dice addio alle lunghe jam session dal vivo e si approccia ad uno stile più “calmo” e fortemente melodico. Le sue produzioni, dall’album The Man with the Horn (1981) in poi, si caratterizzano così: fusione di funk e jazz, tastiere new wave, chitarre funky e occasionali incursioni nell’hard rock e nell’elettronica.

C’è chi potrebbe dire: venduto. Il classico giudizio che si appioppa ad un artista quando questi, specie in una fase avanzata della carriera, mette da parte le sperimentazioni per godersi un po’ il successo di pubblico. Ci sarebbero a questo proposito da considerare vari fattori. Primo, gli anni ’80: un decennio che come sappiamo va preso come un’epoca a sé stante, che ha prodotto cose di cui essere orgogliosi e cose di cui vergognarsi.

Secondo, la volontà sempre assolutamente ferrea di Miles Davis di guardare avanti, provare cose nuove, non importa se “commerciali”. Non bisogna dimenticare che nel 1969, con In a Silent Way, egli fu tra i primi artisti jazz ad accogliere nel proprio ensemble strumentisti elettrici.

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Un’altro aspetto che va considerato è quello riguardante il panorama jazz di quegli anni. Da una parte, i nuovi tradizionalisti volevano dimenticare l’epoca della fusion per recuperare la purezza dell’hard bop degli anni ’50. Dall’altra appunto il jazz commerciale, gli artisti smooth jazz come David Sanborn e i grandi vecchi come Herbie Hancock che si godevano le gioie della classifica.

Miles Davis rientra certamente tra questi ultimi, e dati i ritmi dance dei suoi album di questo periodo, non è una sorpresa che Wynton Marsalis lo prendesse allegramente in giro. Ma quanto detto serve a capire che, come al solito, è questione di punti di vista.

Hanno ammazzato il jazz, il jazz è vivo.

Ascoltiamo questi album, ascoltiamoli tutti da cima a fondo. Ma dimentichiamoci, per un attimo, che sono album di Miles Davis. Sentiamo dei buoni dischi di jazz-pop elettronico, melodie interessanti, tranquillamente ballabili, e la fedele tromba che accompagna disinvoltamente chitarre e il basso in slap. Cose brutte? Assolutamente no. Certo, è ovvio che non stiamo sentendo Kind of Blue né Filles de Kilimanjaro. Ma, cercando di guardare la questione da un’altra prospettiva: abbiamo un artista alle soglie dei sessant’anni che ha ancora voglia di provare cose diverse.

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Molti, specie gli artisti rock, arrivati a quell’età si cristallizzano nel fare sempre peggio le stesse cose che facevano bene trent’anni prima. Anche tra i jazzisti, per quanto la qualità cali di meno con l’età, è rara una tale capacità di spaziare tra i generi con l’incedere degli anni. Invece Miles, spirito ribelle, mente esplosiva, non si è mai fermato.

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Gli album degli anni ’80 di Miles Davis vanno visti allora solo come una parte del suo complesso e sfaccettato mosaico. Mosaico che l’artista è andato componendo con pazienza nel corso degli anni, lavorando con ogni tipo di musicista e sperimentando ogni tipo di stile. Un discorso che va ben oltre la dicotomia commerciale/non commerciale.

Un’argomento a favore di questa tesi? Presto detto: è l’ultimissimo album di Miles Davis. Doo-Bop, uscito postumo nel 1992, contiene molti elementi hip-hop, comprese performance di rap. Non occorre ricordare che quelli erano gli anni d’oro del genere, e Miles non si è fatto sfuggire neppure questo.

Possiamo essere certi che se fosse vissuto ancora avrebbe collaborato magari con Flying Lotus, Childish Gambino o Tyler the Creator. Reinventandosi ogni volta, andando sempre più in là, molto di più dei suoi eminenti colleghi. Questo avrebbe fatto Miles Davis.

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