Giulio Andreotti. Violenza e contegno. Un uomo analizzato dal 1993 fino all’avvio dell’inchiesta giudiziaria per associazione mafiosa di cui fu soggetto, fino al suo declino. Un personaggio sviscerato, studiato sia nella sua dimensione pubblica che nella sfera privata. Un individuo che trasmuta, attraverso le lenti dell’interpretazione di Sorrentino, in universale, in simbolo astratto di un potere che si autoperpetua. Del potere che, impazzito, è disposto alla distruzione della realtà che lo circonda per mantenersi in vita.
Attraverso l’analisi di una tra le personalità più affascinanti dell’ Prima Repubblica, di uno tra i personaggi più misteriosi della storia del vecchio governo italiano, Paolo Sorrentino crea un affresco inedito — e da molti criticato — dello scenario politico nostrano, evidenziandone le luci e le ombre, le problematiche e gli enigmi.
L’operazione condotta dal celebre regista napoletano, rappresentante della grandiosità della tradizione cinematografica della penisola italica nel mondo, si sofferma su un’estetizzazione del documentaristico. Il documentario viene sostituito dal prodotto artistico. Il dato reale viene trasmesso e veicolato attraverso la sublime bellezza della finzione artistica.
Cesare deve morire di Paolo e Vittorio Taviani (2012)
Rebibbia, Roma. I detenuti del carcere del luogo vengono seguiti dalla telecamera dei fratelli Taviani. Alle prese con le prove per lo spettacolo teatrale i protagonisti della pellicola — tra i quali vi sono anche ergastolani — vengono seguiti, filmati, analizzati. Nella finzione dei personaggi dell’eterno “Giulio Cesare” di Shakespeare cercano di trovare la loro essenza, il futile senso della loro esistenza.
Premiato con l’Orso d’oro al Festival del Cinema di Berlino nel 2012, Cesare deve morire si caratterizza come un’opera profondamente sociale che mette in scena una possibilità di miglioramento, possibilità concessa a coloro che hanno sbagliato. Un inno alla speranza.
I detenuti del carcere di Rebibbia diventano i protagonisti di una pellicola girata sotto una forma documentaristica, dove la desolazione dell’isolamento viene registrato — ed accentuato — attraverso l’uso del bianco e nero, il quale, tramite la sua sobrietà e conla sua eleganza, trasmette un senso di desolazione; amplificando la solitudine provata dai soggetti osservati da Paolo e Vittorio Taviani.
La prigione diventa il foro di Roma. Un attore si trasforma in Giulio Cesare. L’irrealtà della finzione trasmuta nella tangibilità del reale.
La grande bellezzadi Paolo Sorrentino (2013)
Sessantacinque anni. Sessantacinque anni necessari ad intuire il senso dell’esistenza. Compiuti i sessantacinque anni, allontanandosi dalla mondanità romana che, plasmandolo essenzialmente, gli ha concesso la fama e la dignità di cui aveva bisogno, Jep Gambardella si posiziona volontariamente ai margini di quella società destinata all’autodistruzione di cui si è sentito parte per anni. Per osservarla, per analizzarla, per demolirla, per cercare di capirla.
Designato miglior film straniero presso l’86esima edizione della cerimonia degli Oscar, La grande bellezza (stasera su Iris alle 21) è un’affascinante panoramica su esistenze lontane, ma terribilmente vicine. Esistenze che, apparentemente inconciliabili e contrastanti, si intrecciano, accomunate dal fil rouge dell’intera pellicola: Jep Gambardella.
Attraverso la voce narrante e gli occhi attenti del protagonista, disilluso e privo di ogni ispirazione, interpretato da un carismatico Toni Servillo, Paolo Sorrentino compone un inno alla noia della quotidianità, alla banalità del dettaglio. Un’esaltazione alla bellezza della vita che, nell’esagerazione della monotonia, trova la sua ambigua vivacità.
Un film che si muove tra sacro e profano, tra incantevole e grottesco, tra materiale e trascendentale.
Il capitale umano di Paolo Virzì (2014)
Un ciclista viene investito da un’automobile. L’evento in questione viene visto attraverso gli occhi di tre diversi personaggi, per ricostruire con cura cosa realmente è accaduto e cosa lo ha provocato. Il capitaleumano ci trasporta nelle vite benestanti di Dino, agente immobiliare, Carla, ricca e insoddisfatta moglie di Giovanni Bernaschi, e Serena, figlia di Dino. Tutte queste persone appartengono ad una classe sociale e forse questa provenienza influenzerà le loro scelte.
Un film che sottolinea l’importanza sociale, tanto attuale quanto forte, dove Virzì intreccia con maestria le storie di tutte queste persone, legate da un filo rosso: l’incidente in questione.
“Importi come questo vengono calcolati valutando parametri specifici: l’aspettativa di vita di una persona, la sua potenzialità di guadagno, la quantità e la qualità dei suoi legami affettivi. I periti assicurativi lo chiamano Il Capitale Umano“.
(a cura di Francesca Moretti)
Lo chiamavano Jeeg Robot di Gabriele Mainetti (2015)
Entrare in contatto con un materiale radioattivo capace di alterare il corpo, potenziandone le capacità fisiche. Usufruire di tale fortuito cambiamento per le proprie attività criminali. Fino a quando ci si innamora. L’incontro con Alessia, ragazza convinta di aver incontrato il protagonista di un fumetto giapponese degli anni Settanta, cambierà la vita di Enzo, personaggio principale della pellicola.
Sullo sfondo di una Roma desolata e desolante, Gabriele Marinetti unisce sapientemente elementi tratti dal cinema supereroistico a caratteristiche tipiche dello scenario in cui Lo chiamavano Jeeg Robot viene ambientando, plasmando una pellicola eclettica moderna dalla freschezza tipica della gioventù.
L’eroe non deve più combattere entità incomprensibili dalla forza incommensurabile, ma la gente normale. L’eroe non deve più salvare il mondo, ma una borgata romana. Addio alle luci e ai colpi di scena à la Hollywood: la convenzionalità dei cliché dei supereroi americani viene totalmente abbandonata dal regista italiano. La ventata d’aria fresca di cui il cinema italiano aveva bisogno.