È il 6 luglio 1977. I Pink Floyd sono già uno dei più famosi e celebrati gruppi del pianeta, e stanno suonando il loro ultimo album, Wish You Were Here (1975), in tour. Data la loro fama, necessariamente molti dei giovani che vanno a sentirli in concerto lo fanno solo per vedere da vicino dei musicisti famosi, e non perché capiscono e ammirano la loro musica. Questo appare chiaro al radicale Roger Waters, leader ed eminenza grigia del gruppo, per il quale la musica è arte che va ascoltata e compresa. Allora, quando vede davanti al palco dei ragazzini scatenarsi come se fossero a un concerto dei Kiss, non resiste. E sputa in faccia a uno di loro.
L’incidente crea, nella mente di Waters, una dissociazione intellettuale. Egli si sente estraniato dall’intera esperienza del proporre musica dal vivo, percependo (come già i Beatles prima di lui) che il pubblico non ascolta sul serio, ma presenzia e basta. Se sul palco abbiamo l’arte, infatti, sotto di esso abbiamo il libero sfogo e l’emancipazione emotiva di molti giovani che chiedono solo una serata di gioia e divertimento. Ma trattandosi dei Pink Floyd, e di Roger Waters, le due cose non possono coesistere.
Ecco allora che il musicista inglese si immagina una situazione paradossale: cosa accadrebbe se sul palco venisse eretto un muro, e la band suonasse dietro di esso, senza che il pubblico possa vederla? Ecco che nasce The Wall. Ma è solo l’inizio. Da un’impostazione puramente spettacolare, il concept si evolve concettualmente per diventare il nuovo album dei Pink Floyd. Il disco, intitolato semplicemente The Wall, esce nel 1979.
A ogni canzone si accompagnano infatti degli eventi scenografici, poiché album e concerto dal vivo sono concepiti in parallelo, per funzionare insieme. Ecco il concept: il muro, che dal vivo separa la band dal suo pubblico, nella storia raccontata nell’album è metafora di quel confine mentale che ogni individuo traccia tra sé e gli altri. Tra la propria personalità e la massa che la reprime. Ossia, ancora, tra l’arte di Waters e il mercato della musica. In The Wall infatti Waters astrae e radicalizza concetti già presenti negli album precedenti dei Pink Foyd. Il rapporto tra individuo e massa, tra artista e mercato, tra singolo e società, già infatti forma la base di Wish You Were Here.
In The Wall, i “mattoni” sono letteralmente tutti quegli eventi segnanti nella vita di una persona che la portano a isolarsi e distanziarsi dalle altre. Nell’esperienza di Waters: il padre morto in guerra (Another Brick in the Wall, Pt. I), la rigida istruzione (Another Brick in the Wall, pt. 2), la guerra stessa (Goodbye Blue Sky), l’oppressione materna (Mother), l’edonismo insensato (Young Lust), i conflitti relazionali (Don’t Leave Me Now).
Il concept è diviso in due parti: durante la prima parte, l’esecuzione delle canzoni viene accompagnata dalla costruzione, mattone per mattone, di un grande muro (di polistirolo) che pian piano nasconde la band al pubblico. Alla fine di questo primo atto, il protagonista (lo stesso Waters, immancabilmente) annuncia l’addio al mondo che non lo comprende e che egli non ha il coraggio di affrontare. La canzone è appunto Goodbye Cruel World. L’ultimo mattone viene inserito, e il muro completato.