“Moebius” diciannovesima opera di Kim Ki-Duk, presentato fuori concorso alla 70° edizione della mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia. A parere di chi scrive, probabilmente il miglior film del regista sud coreano. Il quale porta alle estreme conseguenze la tecnica e la poetica cinematografica del suo autore.
Sicuramente il migliore da un punto di vista registico e più complesso narrativamente e strutturalmente. Il cinema di Kim Ki-Duk si è da sempre distinto per una scarsità dialogica, sottraendo alla parola il potere e la capacità espressiva. Eccezion fatta per il film precedente, Pieta, in cui il dialogismo è una componente drammaturgica essenziale. L’autore sudcoreano proietta attraverso l’uso dell’immagine quell’espressività densa di una carica emotiva, tale da esplicare la rappresentazione della messa in scena.
In Moebius Ki-Duk porta alle estreme conseguenze la sua tecnica e la sua poetica, privando la pellicola di qualsiasi dialogo o scambio di battute. Il film è totalmente privo di parole, ora inutili. Riuscendo ad esprimere ogni emozione, tutta la sofferenza e la solitudine attraverso le immagini, l’espressività e la gestualità degli interpreti. In tal senso, Ki-Duk dimostra una capacità , superiore alle prove precedenti, nell’uso della macchina da presa. Ora, si muove sulla scena nevrotica, con fare instabile, a voler documentare l’isterismo di cui il racconto è catarsi. Uno sguardo opprimente, che costringe il nostro a guardare corpi che si odiano e si amano in un vortice di disturbante masochismo.
Sentimenti che si scambiano i ruoli, sovrapponendosi, quasi a confondersi. In un vortice all’interno del quale l’unica cosa che sembra avere un significato, valore per i personaggi, è il piacere corporale, erotico. Lo si percepisce nell’affannata ricerca del padre della possibilità di un trapianto di pene per il figlio. Il cui solo obiettivo sembra essere quello di permettergli di raggiungere l’orgasmo, più che compensare ad una mutilazione. Il figlio cade vittima, innocente, del delirio della madre. Scoperto il tradimento del marito, la donna tenta di evirare prima lui, fallendo, e poi il figlio.
“In origine nasciamo nel desiderio e ci riproduciamo nel desiderio. Quindi siamo collegati in un tutt’uno come il nastro di Moebius e io finisco per invidiare, odiare e amare me stesso”.Â
Nelle parole del regista è decifrabile l’intento dell’opera, ovvero quello di mettere a nudo il fondamento ultimo dell’uomo: il desiderio, come motore esistenziale. E l’evirazione dell’organo maschile, che ricorre nello schema degli eventi che si susseguono, diventa il simbolo di distruzione di quello stesso desiderio. Un desiderio che proietta un’aura erotica sui corpi altri, accompagnata da atti di violenza e abuso. Provocando nient’altro che dolore e sofferenza, in una visione filosofica piuttosto pessimistica e nichilista. Che accostando il desiderio al dolore, pone in essere la sofferenza come vero fondamento ultimo dell’esistenza dell’uomo. Tema, quello della sofferenza, ricorrente nella filmografia di Ki-Duk, le cui opere offrono squarci visivi ed emotivo sugli abissi dell’animo umano. Una sofferenza cui ci si può sottrarre abbandonando un’ideologia in tal caso corporizzante e sessuale, per dedicarsi ad una spiritualità interiore. Cui testimonia la presenza di una statua del Buddha, sia come custode dello strumento di castrazione, sia come effige idolatrata dal ragazzo, nella quale trova la sua pace.
Un piacere inteso in senso maschile, che si fa veicolo di scrutamento e critica su una società fortemente maschilista. Ki-Duk fa proprio lo strumento della psicanalisi per osservare un nucleo familiare minimo, come proiezione micro-comunitaria della società intesa in senso più ampio. La cui struttura sociale è costituita dal sesso di appartenenza dei vari membri. All’interno della quale si cerca di compensare, ad una castrazione fisica o metaforica, che diventa il simbolo di perdita, ora di potere ora di senso.
Idea che torna a più riprese, sia nella sequenza dello stupro di gruppo in cui il figlio simula l’atto della violenza fisica per non venire meno. Allo stesso tempo al ritorno della madre che proietta sul figlio le proprie esigenze sessuali, per soddisfare entrambi. Avendo il figlio preso lo status del padre, diventando il simbolo di una virilità domestica dominante. Tutto per tornare ad una situazione fallocentrica normativa che stabilisce un grado di appartenenza comunitaria e simbolica.
Con Moebius Kim Ki-Duk crea un’opera altamente disturbante tanto da lasciare un segno negli occhi di chi guarda. Lo spettatore prova un senso di angoscia e timore, misto a disgusto per le immagini proiettate sullo schermo. Una pellicola controversa destinata a dividere pubblico e critica nella considerazione di essa. Destinata a diventare un cult e il punto più alto nel cinema del regista sudcoreano. Riaffermando una considerazione espressa sopra, secondo l’opinione di chi scrive.