Nell’oscurità più completa, un suono straniante di origine ignota stordisce lo spettatore. Una lampadina si accende. Un’esplosione. E la pellicola inizia a scorrere. Un membro colto nel momento dell’erezione. E poi luci abbaglianti. Un ragno. E organi animali. Chiodi che si conficcano nel palmo aperto di una mano. La vecchiaia e, infine, la giovinezza, intrappolata dietro alla superficie semiriflettente di una gabbia di vetro.
In Persona (1966), attraverso l’uso di una tecnica cinematografica intima e personale, Ingmar Bergman codifica un linguaggio assolutamente innovativo, totalmente inedito, decisamente irriproducibile.
Nella assoluta mancanza di colori così come nella totale assenza di imprecisioni, nella meticolosità attraverso la quale costruire inquadrature perfette così come nella ricerca formale di proporzioni precise e raffinate, Bergman plasma un mondo totalmente estraneo all’imprecisione che governa la realtà quotidiana; un mondo in cui lo spettatore non è altro che un essere impercettibile, mero osservatore della difettosa materialità che lo circonda.
Analisi cinematografica sul concetto di solitudine – presentata sia come forma psicologica, fortemente individuale, che come problematica metafisica e, quindi, universale –, Persona diventa proiezione fattuale dell’indecifrabile complessità della psiche umana.
David Lynch e Claude Chabrol; Robert Altman e Woody Allen; Jean-Luc Godard e Philippe Garrel: sono numerosi gli artisti che, partendo da Persona, sono riusciti a plasmare pellicole potenti, capaci di rievocare l’importanza incommensurabile dell’arte.
Oltre ad apparire come sintesi della perfezione concettuale e formale cinematografica, elevandosi a rappresentazione di una delle vette più alte mai raggiunte dalla Settima arte, la pellicola del regista svedese si caratterizza quindi come un’opera dal valore immenso, fonte di illimitata ispirazione, punto di origine di innumerevoli capolavori che, in Persona, trovarono la loro linfa vitale.
David Lynch, Mulholland Drive (2001)
Pioniere di un nuovo linguaggio comunicativo determinato dal virtuosismo, David Lynch crea Mulholland Drive intrecciando pulsioni sessuali e intrighi, inconscio e desideri mortali. Terribilmente simili a quelli delle donne dipinte in Persona, i destini delle protagoniste si incontrano, attorcigliandosi, seducendo lo spettatore, ammagliandolo, ipnotizzandolo.
Ampiamente – ed esplicitamente – debitore al capolavoro di Ingmar Bergman, il regista di Missoula metabolizza gli elementi principali della pellicola svedese, personalizzandone le caratteristiche distintive.
Elisabeth Vogler, attrice teatrale chiusa nel silenzio dell’afasia, trasmuta in aspirante attrice hollywodiana, intrappolata in una società dominata dalle logiche insensate della borghesia americana. Lapaura e il desiderio, la repulsione e l’attrazione che riempiono gli spazi di Persona – e che, banalizzati, possono essere definiti come semplice tema dell’omosessualità – si trasferiscono, con la stessa profondità, in Mulholland Drive. L’ammirazione incondizionata e il timore di crollare di fronte all’altro, subordinando la propria coscienza, così come il tema del doppio, si elevano a caratteristica distintiva, essenza dei due film. Due film così lontani nel tempo, eppure così simili.
Profondo estimatore di Ingmar Bergman – che citerà in innumerevoli opere fino ad arrivare a collaborare con lo storico direttore della fotografia Sven Nykvist –, Woody Allen citerà manifestamente il capolavoro dello svedese nel film Amore e guerra.
Rivisitazione in chiave ironica del romanzo di Tolstoj Guerra e pace, Amore e guerra è una parodia dell’insensatezza della vita, complessa – e insensata – esperienza fatta di esperienze premorte e amori non corrisposti, guerra e sterili elucubrazioni filosofiche.
Nella presentazione di temi esistenziali – quali l’incomunicabilità, il significato della moralità e le riflessioni sui sentimenti di morte –, la satira di Woody Allen si avvicina all’atmosfera evocata da Persona. Così come – e sopratutto – nella ripresa delle principali scelte estetiche, che vedono la messainscena della celeberrima inquadratura in cui i volti delle protagoniste nordiche si intersecano tra di loro, fondendosi.
Jean-Luc Godard, Histoire(s) du cinéma (1998)
La Storia del Cinema. Una storia sul Cinema. Le storie del Cinema.
Dal montaggio fortemente sperimentale, frammentario e di difficile interpretazione, la creatura originata da Godard si avvicina al capolavoro di Bergman, riprendendo le tecniche di Persona.
Opera complessamente composta attraverso lo scorrere di un decennio – la produzione di Histoire(s) du cinéma, iniziata nel 1989, terminerà dieci anni più tardi –, la creazione di Jean-Luc Godard oltrepassa la riflessione puramente cinematografica, percorre l’intera storia dell’arte, si sofferma su letteratura, pittura e scienza.
La natura fortemente derivativa di Histoire(s) du cinéma verrà esplicitata dal regista all’interno del frammento Fatale beauté, elucubrazione fisica e, insieme, metafisica in merito al medium cinematografico; frammento in cui verrà visivamente rievocato l’incipit della pellicola del maestro svedese.
Robert Altman, Tre donne (1977)
Considerabile come una possibile rivisitazione americana del capolavoro di Ingmar Bergman, Tre donnescompone – attraverso una complessità analitica al pari della riflessione condotta dal regista svedese – le strutture labirintiche della psiche umana, esaminando la complicatezza della personalità individuale, frazionata in molteplici e differenti forme.
Attraverso l’uso del tema del doppio, dello scambio identitario e della fragilità del proprio essere, Robert Altman compone una sinfonia sull’io femminile, immersa in un’atmosfera surreale ed onirica.
Le relazioni tra le donne protagoniste della pellicola sono rapporti in continua trasformazione, rapporti che continuano a mutare incessantemente all’interno del film. Il perpetuo cambiamento che travolge le figure femminee trasfigura nella realtà, macrocosmo mai uguale a se stesso. La tangibilità del reale trasmuta nell’incertezza dell’onirico, dando vita ad un sistema di situazioni profondamente labili.
Krzysztof Kieślowski, La doppia vita di Veronica (1991)
Il tema del doppio, ampiamente ripreso dall’intera cinematografia mondiale, diventa punto di tangenza tra due grandi maestri del Cinema, come Ingmar Bergman e Krzysztof Kieślowski, la cui filmografia è definita da caratteristiche che sembrano fortemente derivare dalla produzione del regista svedese.
Una ragazza, Veronica, divisa in due. Due vite che scorrono parallele, completamente antitetiche. Una contraddizione vivente, scissa in due luoghi diversi, lontani, irraggiungibili. Una ragazza, Veronica, alla ricerca di se stessa.La doppia vita di Veronica, immersa in un potente immaginario evocativo, assume le sembianze di una visione onirica, che termina lì dove il reale inizia.
Una persona può essere contemporaneamente due? Dove termina Persona, lì inizia La doppia vita di Veronica.