Persona di Ingmar Berman è forse il film più cristallino del regista svedese: una summa filosofica esistenzialista. Ecco una probabile chiave di lettura del film.
“…Tu insegui un sogno disperato Elisabeth, questo è il tuo tormento. Tu vuoi essere, non sembrare di essere; essere in ogni istante cosciente di te e vigile, e nello stesso tempo ti rendi conto dell’abisso che separa ciò che sei per gli altri da ciò che sei per te stessa…Questo ti provoca un senso di vertigine per il timore di essere scoperta, messa a nudo, smascherata, poiché ogni parola è menzogna, ogni sorriso una smorfia, ogni gesto falsità…”
La diagnosi medica più bella della storia del cinema è probabilmente quella della dottoressa di Persona fatta all’attrice Elizabeth Vogler (Liv Ullmann) sul suo improvviso e clinicamente inspiegabile mutismo. È questo il filo conduttore di Persona, a buon titolo tra i capolavori del maestro Ingmar Bergman.
È raro che un film scarno ed essenziale, anche nel minutaggio, con un soggetto tuttosommato comune riesca ad entrare nell’Olimpo del cinema, tra quei capolavori inarrivabili che segnano la propria epoca e quelle successive, tanto da essere considerati – ben cinquant’anni dopo – di una (post) modernità incredibile.
Il monito di Persona: il film è finzione
Persona è un film innocente: così innocente da mettere in chiaro allo spettatore dai primi minuti che ciò che è mostrato è finzione. In un’operazione di meta-cinematografia così naturale e ben riuscita (tra i casi analoghi sovviene in mente La Montagna Sacra di Jodorowsky) è difficile distinguere il vero dal falso proprio perchè non esiste vero e falso.
Il montaggio dell’intermezzo, per l’appunto metacinematografico, è quasi subliminale: una mano bucata da un chiodo, una pellicola che brucia, un pene eretto. Suggestioni quasi surrealiste che probabilmente richiamano quello che fu un manifesto del surrealismo cinematografico come Le Chien Andalou di Buñuel.
La scena, ripetuta uguale a se stessa per ben tre volte durante il film non può essere altro che un sipario tetrale, che si apre, divide in atti la rappresentazione e che – invitabilmente – è destinato a chiudersi. Persona è una grande tragedia teatrale dove entrano in gioco le anime, i segreti ed i rifiuti.
Persona come maschera teatrale
Già solo il titolo è evocativo di una realtà teatrale: l’etimo latino di persona (il quale significato odierno sarebbe stato espresso con homo) è quello di “maschera teatrale”. Per metonimia, poi, persona ha assunto il significato di “uomo dietro la maschera” e quindi “uomo”.
Bergman trasla l’etimo donandogli un forte significato esistenzialistico. L’uomo è una vera e propria maschera, anzi molteplici (come insegnava Pirandello), tramite la quale riesce a separare la vita pubblica dalla vita privata. La convivenza civile e le regole sociali impongono di sopprimere alcuni degli istinti fondamentali dell’uomo. Dinanzi a questa presa d’atto – la presa d’atto dell’assurdo – l’unica strada percorribile è quella di svuotare di senso la propria esistenza tramite due strade: il suicidio o il mutismo.
È la seconda strada quella scelta dall’attrice che inizia a ridere recitando l’Elettra a teatro finendo per non parlare più. Non a caso la “crisi” scoppia proprio a teatro durante la rappresentazione, come un anarchico rifiuto alla catarsi che l’opera d’arte suscita nello spettatore e – perchè no – nell’attore.
L’uomo è costretto a fingere in società
Ricoverata in una clinica psichiatrica viene assistita da un’infermiera dedicata: la bellissima Alma interpretata da Bibi Andersson. Nel preludio l’infermiera non manca di coprirsi di un velo di candore: una giovane donna, appassionata al proprio lavoro e con una tradizionale vita sessuale e matrimonale.
La dottoressa, però, intuisce che non sarà possibile alcuna guarigione da un problema prettamente psicosomatico in un ospedale dove i ruoli imposti dalla società tengono più che mai. A scopo terapeutico infermiera e paziente vengono invitate a trascorrere un periodo di “isolamento” al mare.
Persona: Nelle parole il germe dell’assurdo
Le due donne si spogliano delle proprie divise, in senso metaforico e non, e iniziano una convivenza fatta di fiumi, laghi, oceani di parole. L’infermiera Alma si lascia andare ad un lunghissimo flusso di coscienza, reso pregnante da un montaggio ottimo, raccontando all’amica muta segreti, paure, sogni, sentimenti.
“Nelle parole è la nausea, il dolore spasmodico, il vomito”.
I personaggi iniziano a delinearsi: Alma non è certo l’incarnazione del perbenismo avendo abortito, partecipato immobile ad un’orgia (il quale piacere l’ha travolta lasciandola dantescamente tramortita) e probabilmente nascondendo la sua bisessualità.
Alma non mancherà di mostrare anche il suo lato cattivo e vendicativo verso l’attrice, quando lei cercherà di riferire tutto alla dottoressa, mettendo in cattiva luce la giovane infermiera. Sfogherà una rabbia feroce, alternata a momenti di mansuetudinità (quando le sovviene il suo ruolo sociale di assistente).
Le due personalità si fondono, diventando l’opposto di ciò che erano prima. La Vogler si è chiusa nel mutismo per l’assurdità della sua vita data da una maternità odiata e non desiderata: un figlio avuto semplicemente per omologarsi alla mondanità delle sue frequentazioni.
Una fotografia di rara bellezza
Bergman aiutato da Sven Nykvist, geniale direttore della fotografia, in un esperimento di rara bellezza fa ripetere lo stesso discorso di accusa reciproca dallo stesso personaggio inquadrando prima un volto e poi un altro.
Entrambe, in perfetta simmetria e nello splendore del B&N, portano sul volto una zona d’ombra ed una zona di luce, il bene ed il male che convivono (come in una sorta di doppio gotico) distruggendosi a vicenda. Subito dopo un’inquadratura geniale (a cui probabilmente ne è debitrice anche la scena madre di Psycho) accosta le due metà illuminate, creando un unico essere umano aberrante quanto meraviglioso.
È quella la vera presa d’atto dell’assurdo, la genesi dell’alienazione che si materializza solo nel momento più dionisiaco del film, quando il caos regna e le personalità sono veramente fluide ed intercambiabili, per così dire.
Nessuna conclusione eclatante, in quando allo spettatore è stato chiarito che si tratta di una perfetta finizone teatrale. Le due ritorneranno in città separate. Alma vestita da infermiera ligia al lavoro e agli obblighi sociali e Elizabeth sul palco dell’Elettra, in un finto anticonformismo da artista.
Un’opera atemporale e alienante
La genialità del film è proprio quella di sospendere nel tempo la fusione delle due personalità e la scoperta della verità. Nella casa al mare non ci sono orologi, calendari, non c’è neanche notte e giorno, a dire il vero ma un unico tappeto di luce che sminuisce i campi ma valorizza all’inverosimile i primi piani.
Nulla di nuovo per Bergman, comunque, già Il Settimo Sigillo aveva proposto scene di simile bellezza nel discorso con la Morte.
La negazione dell’amore materno
Struggente nella sua ciclicità è anche il bambino, il figlio della Vogher, lasciato come in un lettino di ospedale, abbandonato, che cerca di raggiungere tramite la venerazione l’immagine della madre impressa chissà dove. Alla freddezza ed inaffettività della madre, corrisponde l’amore cieco del figlio. Anche qui si ritrova il tema del contrario, la madre ride durante la rappresentazione dell’Elettra, personaggio tragico su cui è stato coniato il Complesso di Elettra, non a caso speculare al Complesso di Edipo, quello che probabilmente il figlio prova verso la madre irriconoscente.
Bergman in Personaoffre il proprio coraggio di sperimentare e la propria bravura per tentare un’operazione quasi titanica: portare sullo schermo l’animo umano, senza tirarsi indietro dinanzi a nulla.
“Tuo figlio fu preso da un immenso quanto incomprensibile amore per te e tu invece lo respingi disperatamente, perché non sai ricambiare il suo amore. Eppure ci provi, tenti, ma tutto si limita a dei rapporti goffi e crudeli fra te e tuo figlio. Non ci riesci, rimani fredda e indifferente… ed egli ti ammira, ti guarda con tanta dolcezza e ti ama mentre tu vorresti che ti lasciasse in pace. Ti disgusta con quel suo corpo goffo e quelle labbra tumide, e quei suoi occhi umidi e imploranti. Ti dà ancora disgusto e hai paura. No, io non sono come te, non ho i tuoi sentimenti… sono l’infermiera Alma e sono qui solo per aiutarti. Non sono Elisabeth Vogler. Tu sei Elisebeth Vogler… Io desidero… io voglio amare… io non ho…”