Easy Rider (Dennis Hopper, 1969)
Il road movie diventa, secondo l’interpretazione di Dennis Hopper, l’erede del western per eccellenza.
Una rapida panoramica sui dieci migliori road movies mai realizzati secondo La Scimmia Pensa.
Il road movie diventa, secondo l’interpretazione di Dennis Hopper, l’erede del western per eccellenza.
Analisi asettica di una generazione pura e priva di ogni costruzione imposta dalla società , la pellicola di Hopper offre uno spaccato al limite della follia, lisergico e psichedelico – ma terribilmente veritiero – della fine degli anni Settanta statunitensi, teatro di una lotta tra un’ammuffita e un’inedita America.
Fotografia di un viaggio verso est – che, partendo dalla California, era finalizzato al raggiungimento di New Orleans, dei suoi locali straripanti jazz e del suo carnevale – e road movie per eccellenza, Easy Rider è un percorso di scoperta di una generazione ostracizzata e ripudiata dai vecchi Stati Uniti, di una cultura giovanile – come quella hippie – che plasmò una prospettiva nuova e rivoluzionaria secondo la quale interpretare il mondo.
Case che ardono, accendini perennemente in fiamme, sigarette  fumate alla velocità della luce. Una dietro l’altra, senza smettere mai. Boccate di fumo alternate a baci, alla passione di un amore incontrollabile, violento, selvaggio.
Spingendosi verso l’esagerazione dell’eccesso, il regista statunitense confeziona un film esilarante, provocatorio, sicuramente più decifrabile.
Il viaggio di Lula e di Sailor, diametralmente opposti ma inspiegabilmente complici, è una fuga dalle imposizioni familiari, da un buonsenso che impedisce loro di coronare il proprio amore. È una fuga infinita, senza ritorno.
Mory e Anta, pastore privato di gregge e studentessa privata della sua voce, viaggiano verso il paradiso parigino, pura materializzazione del loro ideale. La Francia è un miraggio irreale, una chimera da raggiungere a bordo di una motocicletta.
Dominato dalla frenetica irrequietezza giovanile – che si specchia non solo nella materia narrata, ma anche nella scelta stilistica –, la pellicola di Mambéty diventa un passo verso l’emancipazione post-coloniale, una pulsione verso il cambiamento, un percorso teso al raggiungimento della libertà .
Fortemente influenzato dal rinnovamento cinematografico introdotto dalla Nouvelle Vague francese, il regista senegalese dipinge una società determinata dalla collisione della modernità e della tradizionalità , definita dalla feroce lotta tra urbano e rurale.
Viaggio nell’entroterra del soleggiato Messico, Y tu mamá también è la ricerca di una spiaggia irraggiungibile; è l’esplorazione naturale, spontanea e disinibita dell’macrocosmo sessuale; è l’epopea di una gioventù che non conosce l’esistenza del limite.
Tra provocazioni e ostentazioni, il regista riesce a ritrarre la frenetica curiosità della gioventù, perennemente tesa all’eccesso, costantemente alla ricerca del mero e puro divertimento materiale.
Parole di Emily Brontë consumate dalle fiamme. Incapaci di fornire indicazioni sul tragitto da percorrere. Totalmente inutili in un universo utilitarista.
Manifestatamente influenzato dalle teorie brechtiane e vertoviane, il road movie politico di uno dei maggiori esponenti della Nouvelle Vague francese si sofferma – fatto non bizzarro all’interno della cinematografia godardiana – alla critica di una società figlia del consumismo, figlia dal capitalismo, che trova l’unica soddisfazione alle proprie eccitazioni nella divinizzazione del fine settimana, unico squarcio di paradiso concesso ad un mondo infernale.
Ingorghi stradali e bambini che camminano sul ciglio della strada. Voci infantili intonano filastrocche, gli adulti regrediscono alla barbiarie. Donne, scese dalle loro vetture, litigano. Uomini, picchiando, uccidono. Le automobili si incontrano in una collisione mortale. Benvenuto, fine settimana.