Strade attorniate dall’onirica luminosità di ologrammi al neon. Strade mai percorse, sconosciute e deserte, in cui perdersi senza accorgersene. Strade buie, immerse nella nebbia. Strade bloccate, senza uscita. Strade illuminate dal bagliore sinistro di lampioni che si susseguono sporadicamente. Strade che si aggrovigliano tra di loro, come capillari di un organismo complesso – la metropoli –, come rami di strutture labirintiche. Percorsi che conducono in nessun luogo, percorsi che – nella loro diversità – si assomigliano terribilmente.
Protagonista indiscussa del road movie, la strada, nelle sue più svariate declinazioni, ha affollato l’immaginario artistico mondiale. In essa si è condensato il tema della spazialità, rappresentato in innumerevoli forme, analizzato da infinite prospettive.
I film sono disposti in maniera del tutto casuale.
Il sapore della ciliegia(Abbas Kiarostami, 1997)
Sabbia, polvere e rocce. Una range rover bianca si muove attraverso il paesaggio polveroso delle colline della periferia di Teheran.
Assumendo le sembianze di un film d’inchiesta, dal tratto fortemente documentaristico, ancorato agli stilemi del cinéma vérité, il film di Kiarostami è un viaggio sensoriale attraverso la quotidianità del luogo; è un viaggio che si sofferma con attenzione non unicamente sullo spunto filosofico, ma anche – e soprattutto – sulle problematiche sociali, quali la mancanza di lavoro.
Alla ricerca di qualcosa di ancora incognito, imprecisato e nascosto, il viaggio raccontato in Il sapore della ciliegia è una riflessione metafisica sul tema del suicidio, strettamente connesso a quello della bellezza del vivere.
Il perpetuo ed interminabile parlare del protagonista viene sostituito dal silenzio. Le parole sono totalmente inutili. Dio non esiste. Il regista è l’unico demiurgo. Smascherato l’artificio narrativo proprio della finzione metacinematografica, resta solo il messaggio. La risposta è da trovare nella pace tacita della natura.
Alice nelle città (Wim Wenders, 1974)
Una bambina mora seduta da sola, vicino ad un jukebox. Una bambina bionda innocentemente affascinata da ciò che circonda la propria solitudine. Un giornalista in crisi, totalmente privo di ogni ispirazione.
Wim Wenders si muove tra sogno e realtà, verità e finzione, vita e televisione, plasmando un road movie che trasmuta in immagine metaforica della ricerca della propria essenza, dovuta alla crisi delle proprie certezze esistenziali.
Alice nelle città, pellicola divisa tra America ed Europa, riesce ad essere contemporaneamente sia una riflessione sull’amarezza del vivere sia una critica alla solitudine della società capitalistica americana, una solitudine che aleggia nella prima parte del viaggio – e insieme del film – e che diventa espressione dello spirito americano, ribelle, rivoluzionario, totalmente isolato, lontano dalla realtà che lo circonda.
L’America monocromatica dipinta dal regista tedesco è quella dell’infinitudine degli spazzi, è quella dell’isolamento, è quella del nutrirsi unicamente dell’ologramma del proprio desiderio.
Abbandonare tutto il preconfezionato e lo stabilito per adottare una prospettiva inedita, ma terribilmente primitiva. La prospettiva infantile. Una prospettiva che afferma genuinamente e ingenuamente una verità pessimistica.
Il posto delle fragole (Ingmar Bergman, 1957)
Ricordi, sogni, rimpianti. La volontà di migliorare il proprio vissuto si confonde con l’ossessione che tormenta l’ultima stagione di un’esistenza, stagione che precede la morte.
Nell’ora più scura della propria vita, nell’ora che ne precede l’inevitabile fine, ripercorrere i meandri dei propri ricordi, richiamando alla memoria la gioventù e gli amori che furono, i pranzi di famiglia – immersi nella frescura della villeggiatura – e il posto in cui si raccoglievano le fragole.
Coinvolgendo direttamente il cuore dello spettatore, suscitando in lui profonde emozioni, Il posto delle fragole – rappresentante esemplare della cinematografia di Ingmar Bergman – colpisce “fino nel profondo, nelle stanze oscure della nostra anima”.
Odissea catartica, incomprensibile e liberatoria, tramite la quale scoprire finalmente la propria vera essenza, la pellicola del regista svedese è una poetica rilettura di ricordi giovanili celati nell’oscurità della nostra mente, ricordi filtrati attraverso gli occhi sapienti della vecchiaia, di una vita prossima alla distruzione della morte.
Attraverso la singolare sensibilità che contraddistingue il cinema di Bergman, il viaggio in macchina – e, quindi, il genere del road movie – diventa il pretesto per ultimare una meditazione esistenziale, una riflessione filosofica che lascia nello spettatore un vuoto profondissimo, un vuoto in grado di risolvere dubbi inesplicabili.
Il Sorpasso (Dino Risi, 1962)
Un viaggio dal tragico epilogo attraverso le convenzioni del perbenismo borghese. Un road movie attraverso l’Italia del boom economico, attraverso un paese che si nutriva del miraggio della ricchezza, attraverso una penisola costellata di autogrill.
Attraverso Il sorpasso, narrazione di una giornata estiva, Dino Risi offre allo spettatore un affresco dell’Italia delle vacanze e del divertimento, del risparmio annuale per le ferie e del culto dell’automobile.
Ferragosto. Al volante della sua Aurelia decapottabile, Bruno Cortona – quarantenne amante della velocità e delle belle donne – sfreccia tra le strade deserte di una Roma assolata. Roberto Mariani – studente di legge – al suo fianco. Il giovane vicino all’anziano in questo viaggio verso il mare, in questo percorso che assumerà le sembianze di un’iniziazione alla vita adulta.
Paris, Texas (Wim Wenders, 1984)
Un viaggio attraverso la desolazione urbana, illuminata dalle luci oniriche di neon colorati, si alterna a paesaggi vasti, immagini del deserto texano.
Rendendo ancora una volta lo spettatore partecipe della sua personale visione degli Stati Uniti, Wim Wenders reinterpreta i paesaggi sconfinati delle periferie americane, proiezione della solitudine esteriore ed interiore che accompagna il viaggio del protagonista.
In questo road movie – dal grande fascino estetico –, il regista tedesco materializza l’amaro e difficile ricongiungimento familiare, così come le difficoltà che caratterizzano l’esperienza della paternità, soffermandosi sul tema dell’incomunicabilità che, in questo caso, determina i rapporti interpersonali del personaggio cardine della pellicola.