Directed by Stefano Sollima, Written by Taylor Sheridan
Negli USA, la collocazione di un film medio-alto in piena estate indica solitamente una certa fiducia nelle potenzialità economiche del prodotto. A differenza di quanto avviene in Italia, dove i mesi caldi rappresentano il ghetto più mortificante, in America esiste un numero infinito di persone che non va in vacanza, il mare non l’ha mai visto neanche in fotografia, e trascorre i mesi di caldo torrido godendosi in massa l’aria condizionata e il buio delle sale cinematografiche. I summer blockbuster portano in cassa gli introiti maggiori dopo il periodo natalizio. Ad un film che esce tra giugno e luglio si domanda solitamente un rendimento importante. L’estate 2018 è fiacca. Dopo l’overdose di blockbuster primaverile, Hollywood tirerà il fiato. Parziali eccezioni saranno il prossimo Mission Impossible a fine luglio, il reboot Ocean e il secondo Ant Man a inizio mese, e un quarto film, piuttosto particolare. Un thriller di frontiera violentissimo, iperrealista, con agganci pesantissimi all’attualità e livello di escapismo pari a zero. Un film del genere, eppure annunciato da un buzz capace di far concorrenza al chick-flick con Sandra Bullock e Cate Blanchett. E’ costato meno di quaranta milioni. La folla dei multisala condizionati aperti tutta l’estate lo ha accolto con un primo weekend da 19 milioni. E’ il film del loro nuovo eroe. Le proiezioni parlavano di 12.
Prima ancora che il debutto da regista internazionale per Stefano Sollima (atteso come il Messia in Europa ma sconosciuto in USA, unico mercato dove Gomorra non ha sfondato), Sicario: Day of the Soldado è il film della consacrazione di Taylor Sheridan. Il più importante sceneggiatore americano contemporaneo, capace in tre anni di passare da semi-sconosciuto a nuovo autore e speranza per un genere, il Western, dato per morto una decina di volte dagli anni ’30 ad oggi, ed ogni volta rielaborato in nuove vesti dalla contemporaneità . Soldado, sequel diretto del suo Sicario, è più che un banco di prova: è il pass per la cerchia dei più grandi. Terminata la seminale “Trilogia della Frontiera”, Sheridan si trova oggi di fronte alla necessità di confrontarsi con i numeri alti. Il budget che cresce, la meccanica del sequel, del franchise, dello sfruttamente commerciale a larghissimo raggio. L’autore è chiamato a diventare finalmente popolare. Il banco di prova, è il summer blockbuster del mese.
“Quello di SoA”: il percorso di Taylor Sheridan
La seconda vita di Taylor Sheridan come scrittore iniziò nel 2010, con Sons of Anarchy. Ai tempi, il texano faceva l’attore. Cowboy nel più classico senso del termine, si era spostato dal ranch di famiglia per New York e poi Los Angeles, dove tentare una carriera nella recitazione. Ma odiava le grandi metropoli. Visse in una Jeep, si legò ad un gruppo di indiani Lakota e li seguì per un periodo nelle riserve del South Dakota. Tornò in California. Tra i ’90 e i 2000, Sheridan tirava a campare come caratterista, prestando la sua faccia di pietra in ruoli da poliziotto con battute esplicative (far ripetere le cose ai personaggi per spiegarle al pubblico rimarrà nel tempo il suo marchio di infamia per la cattiva scrittura). Una carriera decennale da comparsa in procedural polizieschi di qualità ondivaga. Nel 2008 ha 38 anni, una moglie, un figlio piccolo, e la certezza di essere a un bivio. Si è accasato e sopravvive grazie a un ruolo da comprimario proprio nella serie FX di Kurt Sutter. Ma pagano poco. “Sapevo che non avrei mai combinato nulla in quanto artista rimanendo in quel ciclo“, racconterà . Litiga con il pretesto dei soldi e si fa escludere alla terza stagione. Sono gli anni in cui Ben Affleck esce dal dimenticatoio reinventandosi regista. Sheridan ha quarant’anni, e in quello che non pochi avrebbero definito un principio di crisi di mezza età , decide di diventare scrittore. Sceneggiatore per la precisione.
In una sparata forse un po’ spaccona ma a cui è bello credere, Taylor Sheridan racconta di essersi chiuso in casa per sei mesi all’inizio del 2011, e di aver impiegato quel ritiro monastico per preparare gli script di tre film. Tre opere complementari, strettamente collegate a livello tematico e stilistico. I titoli sono Sicario, Comancheria, Wind River. Inizia il lungo processo di promozione: i copioni bisogna venderli. I primi due vanno via subito, ed il primo ad entrare in produzione è proprio Sicario. Nel 2013 viene affidato a Denis Villeneuve, e due anni dopo esce un piccolo classico istantaneo. Nel frattempo, Comancheria è finito nella black list del 2014 (i migliori script non prodotti): l’anno successivo, grazie al successo del film di Villeneuve, il film si sblocca, prende il nome di Hell or High Water (“qualche stagista ventiseienne del reparto marketing ha detto che Comancheria sembrava una malattia venerea“) ed esce via Netflix. Conferme, nomination. L’ultimo titolo è Wind River, girato in prima persona da Sheridan nel 2017. Ormai l’autore può permettersi di lavorare al suo film da solo. E’ anche quello a cui tiene di più: i ricordi in gioco sono quelli delle terre indiane frequentate da giovane, e di quella comunità a cui è legato a livello quasi religioso. Il mondo rappresentato è sempre più lontano, ostile, dimenticato. Il film è un trionfo. Si parla di Oscar, poi il logo della Weinstein Company nei titoli di testa diventa improvvisamente un deterrente grave. E dire che Wind River di violenza sessuale e sopraffazione parlava. Nella stagione dei premi viene messo da parte. Ma in tre anni, Taylor Sheridan è riuscito a creare una trilogia propria, personalissima e del tutto centrale nel confusissimo panorama cinematografico del 2018.
Un nuovo racconto per una nuova Epica
Il fatto è che l’approccio di Taylor Sheridan alla scrittura cinematografica non è quello naif di un dilettante. Fin da Sicario, a colpire è la volontà di uno sceneggiatore improvvisato di smontare metodicamente la struttura classica del racconto filmico. Destrutturazione ancora più potente se applicata al genere più classico di tutti, ovvero il Western di origine fordiana, che il texano preferisce a quello post-moderno di Peckinpah e Leone. Lo shock arriva persino al pubblico medio: Sicario non è sequenziale, le storie interne passano in primo piano parallelamente al racconto principale, personaggi sullo sfondo diventano protagonisti e i protagonisti recedono all’indietro scomparendo. In Hell or High Water, la narrazione è orizzontale, procede senza svolte per due terzi di film, fino ad un cambio di rotta improvviso che stravolge il senso di quanto visto e cambia la prospettiva del racconto sui propri personaggi. “Ad ogni progetto mi chiedo, come si possono rompere le regole di questo racconto?” spiegherà Sheridan relativamente al suo metodo. Una carriera da ex attore costretto a recitare orribili dialoghi espositivi ha sviluppato in lui un rifiuto per il plot guidato dal testo. Nella Trilogia della Frontiera, le storie sono scheletriche, lineari, costruite in pochi movimenti. E in Wind River questo approccio si prende addirittura la ribalta: un mistery senza mistery, dove i protagonisti risolvono la propria indagine praticamente al primo colpo. E’ un film costruito su quattro uniche grandi scene, spoglio di tutto il resto. Rimangono solo i personaggi, più soli e minacciati che mai, nelle panoramiche del west contemporaneo.
La Frontiera, 2018
Ma Taylor Sheridan non sarebbe quello che è oggi se non fosse un unicum anche a livello tematico. In un periodo storico in cui le scissioni interne alla società americana hanno portato il paese sull’orlo dello psicodramma, il texano è l’unico grande autore hollywoodiano ad offrire una voce a quella che, con mille semplificazioni, si è soliti definire l’America di Trump. L’industria dell’intrattenimento è newyorkese e californiana: chi vive in mezzo alle due coste è ormai un mostro, un alieno, la polvere sotto il tappeto di come gli USA progressisti vorrebbero apparire. In Sheridan, questo è il nuovo west. Non più una frontiera lontana fisicamente, ma un non-luogo dimenticato, abbandonato dall’America stessa, dove uomini disperati sono ancora costretti a lottare contro la violenza delle istituzioni (governative e criminali) in difesa di quel pochissimo che hanno. “Prendi un uomo a cui stanno portando via il suo ranch, che non può pagare l’università del figlio, che non ha assicurazione medica, non capisce cosa sia l’Obamacare, e che l’unico governo che conosce è quello texano. Come pretendi di dargli del privilegiato?” spiega ad Esquire, in aperta polemica il politically correct dell’odiata Los Angeles. Sono queste persone gli “eroi” della trilogia, con compimento totale in Hell or High Water (storia di banche e speculatori, e contadini del texas occidentale a cui vengono portate via le terre – sovrapposizione naturale con un topos secolare del Western). I protagonisti della Nuova Frontiera sono i vecchi eroi del west, nella realtà dei 2010. Personaggi ambigui, complessi, eroi e mostri insieme, rimasti soli in un territorio vastissimo, ridotti a prede.