Intervista Negrita – L’ultimo album Desert Yacht Club e il viaggio dentro noi stessi

Intervista Negrita
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I Negrita non hanno bisogno di presentazioni, sono tra le migliori band del panorama musicale italiano moderno. Portando avanti, da oltre 20 anni, un progetto assolutamente unico e interessantissimo, che unisce blues, rock, world music e funk. Dei pilastri insomma, dei mostri sacri della musica.

Nonostante i tanti anni di lavoro, non sono ancora stanchi e sono in attività. Da poco è uscito il loro ultimo album Desert Yacht Club e iniziato un nuovo tour estivo. In occasione di ciò abbiamo raggiunto lo storico chitarrista Drigo per fargli qualche domanda, ecco le risposte.

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Mancavate dalla scena musicale da ben 3 anni, dalla pubblicazione di “9”. Si parlava addirittura di un possibile scioglimento della band. Cos’è successo?

In realtà siamo stati noi a manifestare che c’è stata questa possibilità qua. Una volta che siamo usciti con quest’album non è che in realtà, durante il tempo, si è vociferato che i Negrita si stessero sciogliendo. No, stavamo semplicemente vivendo una crisi interna, e abbiamo cercato dei modi per risolverla. Poi nell’album abbiamo raccontato un po’ tutto il percorso e effettivamente quest’ultimo album è stato un momento di rinascita.

Grazie appunto a un bel viaggio che ci siamo fatti attorno al mondo, abbiamo fatto il giro del mondo. Cosa è successo nel frattempo? Intanto siamo una band, per realizzare un disco almeno 2 anni a noi servono, quindi diciamo che le tempistiche per noi cambiano poco. Durante la carriera insomma la distanza tra un album e l’altro è 2/3 anni ecco.

In un’altra intervista, avete detto che quest’album vi ha cambiato, anzi vi ha salvato. In che modo?

Diciamo che non per divergenze musicali, il fatto è che non ci si sopportava più. Ci sono state vicissitudini personali, anche private, per cui ad esempio io, mi sono allontanato per un po’ di tempo, mi si è visto anche ingrassato di 100kg. Non stavo bene, è stato un periodo difficile per me e probabilmente soffrendo io ho fatto soffrire molte persone che mi stavano attorno. Ho perso, per un determinato periodo, interesse per un po’ di cose, tra queste cose c’era anche il lavoro, per l’appunto.

Questo viaggio ci ha rimesso in carreggiata, perché era un viaggio fra amici, siamo partiti con un piccolo tour.

Che non ha niente a che vedere con i tour che fanno all’estero i Ramazzotti o le Pausini. Noi andiamo con le nostre chitarre a spalla e suoniamo nei club di grandi metropoli del mondo, dove esistono comunità di ragazzi italiani che lavorano. Abbiamo scoperto che se organizzi un concerto in un club di 500/600 persone lo balli. Questo ci dà la possibilità di sentire la nostra musica anche all’estero anche perché non ci sono soltanto italiani, visitare posti, vedere cose, vivere vita e raccogliere materiale da raccontare nelle canzoni, sia artisticamente che umanamente.

Parli giustamente di viaggio, quest’album è stato prodotto durante un viaggio in America con strumenti di fortuna. Una lavorazione on the road, diciamo. Voi avete definito la produzione “Kitchen groove”, anche perché lavoravate nelle cucine degli appartamenti in cui alloggiavate.

Si, ma diciamo che “kitchen” è una parola un po’ buffa per la musica, ma in realtà a noi serviva un tavolo, dove appoggiare il computer. Poi avevamo questi strumenti di recupero molto economici. Diciamo che l’obiettivo, non era tanto quello di comporre come abbiamo solitamente fatto, chiudendoci in sala prove, ma appunto tappa per tappa, emozione per emozione, filmare delle cose, come si fa nelle fotografie.  

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Voi avete sempre avuto un rapporto molto stretto con l’idea di viaggio e di libertà, ma in particolare il mito dell’America che torna spesso nelle vostre canzoni. Ecco, cosa rappresenta per voi?

Ma sai, molta della musica contemporanea arriva o da lì o dall’Inghilterra. È stato bellissimo negli anni precedenti fare questi viaggi attraverso il sud America, il Brasile. Ad esempio ci ha dato la possibilità di tirare fuori L’uomo sogna di volare, un viaggio attraverso tutto il Sud America, Brasile, Cile, Argentina, Uruguay. Da lì i Negrita hanno cominciato a capire che esplorando si può capire anche il proprio genere, lo si può arricchire, si possono fare esperimenti. Quello fu un album di successo. Quindi, siccome noi non amiamo ripetere una formula che ha funzionato in precedenza, ma diciamo che la formula che ci piace ripetere è quella di comporre durante un viaggio.

Musicalmente vogliamo che ogni album sia sempre differente dal precedente, la tecnica di composizione per noi preferita è quella del viaggio.

Anche perché stacchi dalla routine, stacchi dagli impegni quotidiani e riesci a dedicarti 24 ore su 24 a quello che è il tuo lavoro, ma anche la tua passione.

Anche il titolo Desert Yacht Club, si rifà ad un luogo realmente esistente nel deserto del Joshua Tree in California, nel quale siete stati ospiti, e che avete voluto omaggiare in questo modo.

Diciamo che al momento di dare il nome a un album, di ipotesi se ne fanno tante. Non abbiamo cominciato pensando “facciamo un album che si chiamerà Desert yacht club“. Però volendo, ad album finito, una connotazione, può capitare che una band dia al proprio album il nome del luogo che in qualche modo l’ha generato. Il Desert yacht club è stata una delle tappe di questo viaggio che abbiamo fatto. Interessante tra l’altro, perché noi visitiamo toccata e fuga le metropoli.

In questo caso, siamo stati qualche giorno a casa di Vasco a Los Angeles, che è un posto che ormai utilizziamo da anni quando andiamo in quelle zone. Vasco vive lì per qualche mese all’anno, e quando è libera, affitta questa casa ad amici o colleghi musicisti, per pura simpatia. Non ha bisogno di soldi, è una cosa che semplicemente lui ha piacere di fare.

 Dopodiché abbiamo preso un furgone e ci siamo spostati verso l’interno degli Stati Uniti.

Nell’America rurale che è totalmente differente dalle metropoli, sia culturalmente che per tanti altri motivi. Una di queste tappe è stata il Desert yacht club, ci siamo vissuti per 4/5 giorni la vita nel deserto. Si trattava di 2 roulotte, 3 tende e vivevi nel deserto. Le 4 stagioni all’interno di 24 ore, si muore di caldo di giorno, e appena il sole tramonta se non ti sei messo 4 golf, giacca a vento e sciarpa muori lo stesso.

Quindi, tutto molto estremo. Non è che noi lavoravamo dentro una stanza, c’era semplicemente una tenda che riparava dal sole, sotto questa tenda c’era un tavolo, su questo tavolo c’era un computer e questo computer era sempre accesso e ci potevi trovare alle 3, alle 4 del mattino con 2/3 gradi. Eppure eravamo presi dal lavorare e ci divertivamo da morire. Lontano da qualsiasi distrazione e vivendoci questa vita particolare, nel deserto. Si fa chiamare resort, ma in realtà è una sorta di installazione artistica. C’è questa barca arenata, che si vede nella nostra copertina, e alla fine l’abbiamo scelta anche come una sorta di simbolo. Si va all’arrembaggio con una barca che rischiava di arenarsi, ci sembrava simbolicamente una cosa bella da usare. Ecco perché Desert Yacht Club.

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Per l’appunto il primo estratto dell’album si chiama Siamo ancora qui, che a questo punto potremmo considerarlo un titolo emblematico.

Si, sono cambiate tante cose nella musica. Effettivamente stavamo venendo da un momento in cui stavamo per mandarci affanculo, è vero. O perlomeno stavamo perdendo coesione, e invece c’è stato quest’atto di rivalsa, di rivendicazione, per cui l’album parte con una dichiarazione che dice appunto: “No! Fermi tutti, siamo ancora qua!.

Si perché voi siete in attività dal ’91. 10 album alle spalle, ma da dove viene tutta questa energia, questa grinta? Non siete ancora stanchi.

Ci viene da quello che è il lavoro più bello del mondo, semplicemente da questo. Un lavoro per cui la gente ti viene incontro con il sorriso, che ti permette di viaggiare, che ti permette di esplorare sia fisicamente ma anche con la fantasia. Cosa c’è di più bello? Perché mai dovremmo mollare una cosa del genere? Ovvio che ci sono momenti leggeri e divertenti, altri momenti no, è inevitabile. Anche perché negli anni le personalità si rinforzano, si strutturano, a volte si inaspriscono. Insomma, siamo quasi tutti intorno ai 50 anni, quindi molto è cambiato da quando siamo partiti.

Però possiamo dire che non è cambiato il vostro spirito, portate avanti un progetto musicale coerente con se stesso da anni, con gli stessi richiami.

Ovvio che l’imprinting nostro è quello, non si scappa, rock n’ roll, rock blues, funky, reggae. Sono questi i generi, ma anche tanti cantautori italiani. L’imprinting è quello, la voglia di scoprire, di esplorare è quella, anche in questo senso, si tratta di voglia di cambiare, pur sapendo che il nostro lessico è quello, e arriva da questo imprinting.

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Quest’ultimo album può essere considerato un po’ autobiografico. Perché guardate al passato, con nostalgia, riscoprendo voi stessi, ma nonostante tutto anche uno sguardo teso al futuro.

Assolutamente si, perché siamo genitori, abbiamo figli giovani e ci risulta molto facile osservare anche il mondo dei giovani. Che è un mondo che in questo momento sta cambiando il panorama, soprattutto a livello culturale e musicale. Questo perché sono loro che hanno sempre in mano questi telefoni, sono loro che fanno fare i milioni di visualizzazione e contatti agli Ed Sheeran, ai Coez o i Ghali. Non è gente della mia età. Nonostante anche io possa trovare cose apprezzabilissime in questi generi.

Quindi, diciamo che avere figli aiuta a capire anche il mondo dei giovani e il presente. Il panorama musicale del presente è completamente stravolto da quello che era anche 4/5 anni fa. Questo per l’avvento del digitale, tutto quello che sta avvenendo sulle piattaforme: spotify, youtube ecc. Se sei un programmatore di una radio e vuoi avere successo è inutile che spendi tutto il giorno a chiederti se quel pezzo passerà o non passerà. Vai su spotify, guardi quanti contatti fanno questi personaggi e lo passi in radio. Ecco come funziona.

Parlando appunto di futuro, cosa c’è nel vostro? Quali sono i vostri progetti?

Allora, intanto adesso partiamo per il tour, ci facciamo quest’estate, ci divertiamo. Il tour è la cosa più divertente, come il raccolto per il contadino. Si festeggia, si condivide insieme al pubblico, si guardano le persone in faccia, si viaggia. Si mangia a Genova, poi a Napoli, Catania e si dorme a Torino. È stupendo. Questo è il programma per l’immediato. Dopo sì, abbiamo dei programmi ma mi sembra presto per parlarne.

Durante questo tour tu personalmente sei anche impegnato per mostrare i tuoi disegni. In particolare so che parteciperai ad una mostra a Rimini. Come riesci a unire la passione per la musica e quella per disegno?

Non è un impegno quello del disegno. Non sono un pittore, neanche ci faccio fantasie sopra. Semplicemente non so star fermo con le mani. Ho una borsa sempre con me all’interno della quale c’è di tutto: computer, telefono, ipad, matite, quaderni, pennarelli. Tutto quello che serve per appuntarsi momenti speciali. Perché questo cerchiamo dalla vita: momenti speciali. Altrimenti le canzoni non si scrivono e si dicono banalità. Ecco perché ad esempio se siamo a tavolo disegno sul tovagliolo. L’impegno sarà eventualmente seguire questa vicenda dal punto di vista professionale, se ci saranno degli sbocchi, se le cose piaceranno, interesseranno. Saran cazzi, ma al momento mi diverto e basta.