Il carismatico musicista afro-americano cerca conferma dopo un primo album miracoloso.
Vi avevamo già parlato di Fantastic Negrito sia nei nostri consigli mensili che tramite le nostre playlist. Secondo album anche se in realtà ha alle spalle anche un EP omonimo e un primo progetto indipendente firmato però come Xavier.
The Last Days of Oakland è stato però il lavoro che lo ha portato alla svolta e lo ha reso celebre a livello internazionale. Acclamato da critica e fruitori, non ha tardato troppo a far uscire il secondo atteso Please Don’t Be Dead. Superare il primo bellissimo album sembra un’impresa quasi impossibile ma andiamo con ordine.
Black roots music for everyone!
Ascoltando tutto il disco dall’inizio alla fine possiamo accorgerci che le sonorità si sono un po’ ammorbidite in favore di una musicalità meno grezza e passionale. Questo può mettere in guardia a primo acchito ma in realtà il lavoro dietro a ogni canzone ripaga a pieno la scelta. Il sound blues distorto e potente è chiaramente e fortunatamente rimasto ma ha fatto spazio anche a ritornelli più aperti e leggeri. C’è da dire che Fantastic Negrito era stato chiaro fin da subito, già dalla promozione del primo album:
“Voglio portare la black roots music a tutti.”
Please Don’t Be Dead parte subito forte con il primo singolo estratto, Plastic Hamburgers. Il riff di chitarra entra facilmente in testa e la voce è tutto ciò che si cerca da un disco simile. Potente e graffiante riesce a riempire al meglio il brano tra parti strumentali e cori.
Una delle tracce più interessanti a livello compositivo è senza dubbio A Boy Named Andrew. Il coro portante ha un tono orientaleggiante, opzione spesso difficile da incastrare in un contesto diverso come un album che parte dal blues. Il ricamo è stato eseguito in maniera perfetta e, pur mettendo qualche dubbio al primo ascolto, la rende una delle tracce più riuscite del progetto. Il tema trattato sembra in parte rifarsi alle 3 settimane di come che Fantastic Negrito dovette affrontare a seguito di un incidente negli anni ’90. Anche la copertina dell’album sembra rifarsi a quell’evento.
Minoranze e povertà .
Al centro di tutte le tracce vige il tema dell’emarginazione. Che essa sia creata dalla povertà , il brutto carattere, il sesso o semplicemente dal colore della pelle, Please Don’t Be Dead riesce a regalare un ottimo spaccato di società tramite piccole storie. Niente di nuovo in realtà , questa caratteristica cruda e diretta arriva direttamente dal blues, genere che fa da base a tutti i brani dell’artista.
Il secondo singolo The Duffer offre un ottimo esempio di come si può condurre un ottimo concetto anche tramite poche parole. Anche qui emergono i bellissimi cori che contraddistinguono l’artista per poi far posto a una composizione funk durante le strofe. Il risultato è semplicemente fresco e potente allo stesso tempo. La traccia più classica e blues è probabilmente The Suit That Won’t Come Off. Quella più sperimentale invece è sicuramente la breve Never Give Up. In questo brano di appena poco più di un minuto, il tutto viene lasciato in mano ai cori che si intrecciano alla distorta voce del protagonista.