Nonostante sia diventato famoso come rapper (oltre che come inguaribile arrogante), la musica sembra sempre essere una questione secondaria nella vita di Kanye West. Da un’artista così affermato e presuntuoso ci si aspetterebbe un lavoro all’anno, un singolo al mese, o quantomeno il classico LP di quattordici capolavori ogni tre anni.
Invece Kanye non fa nulla di tutto questo: una serie di dischi nè bellissimi nè terribili fino al 2012, poi uno Yeezus che ormai è diventato un marchio di fabbrica e un ancora più iconico The Life Of Pablo, che prevedibilmente sono forse i suoi dischi peggiori. E ogni suo nuovo album ha un hype sconfinato addosso semplicemente perchè potrebbe essere il lavoro monumentale che tutti aspettavano. Almeno in teoria.
Per quest’estate Kanye West ha escogitato l’ennesimo piano geniale per elevare la sua figura di artista al livello di divinità. Per cinque settimane di fila, ogni venerdì uscirà un disco prodotto da lui. Cinque album in cinque settimane è un record vero e proprio, ma ovviamente il trucco c’è, ed è anche abbastanza chiaro: Kanye canta solo in uno di questi dischi. Si chiama ye, è uscito il 1 giugno 2018 e sulla copertina c’è scritto con orgoglio adolescenziale “I hate being Bi-Polar it’s awesome”.
Sarà questo il disco che consacrerà Kanye West a dio della musica contemporanea?
Innanzitutto chiariamo che sì, Kanye West è bipolare, e l’abbiamo potuto constatare non tanto nei sette pezzi dell’album, ma nel distacco dal ridondanteThe Life Of Pablo; meno tracce, più qualità, una ovvia proporzionalità inversa. Kanye la musica di qualità la sa fare, solo che molto spesso non gli va. Quando si alza con il piede giusto, però, può addirittura lasciare a bocca aperta.
ye riesce a condensare in ventiquattro minuti quello che dai venti brani di The Life Of Pablo emergeva timidamente. Kanye finalmente riesce ad articolare southern rap, R’n’B, elettronica à la Sampha, trap, neo soul in pochi minuti, senza la vuota prolissità dei lavori precedenti. Un album moderno, concentrato, veloce, diretto, con quel minimalismo che lo rende il prototipo di album rap uscito nel 2018.
ye non pretende di essere un calderone ribollente di influenze, perchè già lo è.
Mai gli arrangiamenti, soprattutto vocali, erano arrivati ad un tale livello di coesione con il beat, e mai si era spinto così oltre con le produzioni, dai bassi spaccatimpani di No Mistakes e All Mine alla festa di synth in Wouldn’t Leave e alle chitarre monolitiche di Ghost Town.
Una sinusoide che oscilla tra l’incazzatura che profuma di strade di Atlanta e una malinconia minimale che è strano riscontrare in un disco del rapper più spaccone di tutti i tempi; Kanye ha smesso di nascondere sotto una coltre di black pride la sua autocelebrazione, perchè comunque ormai era palese che fosse solo una questione di dimostrare chi fosse il più figo di tutti. Per una volta, mettere da parte i temi impegnati nei propri pezzi è stata la scelta giusta: se non ci credi fino in fondo, lascia perdere. Non bisogna per forza fare musica impegnata per fare buona musica.
E ha lasciato da parte anche l’attitudine dance e vagamente kitsch, che in Graduation (2007) era emersa in maniera prepotente e che si è affievolita fino a scomparire oggi, undici anni dopo. Evitando che Kanye diventasse il nuovo Pitbull.
Però, caro Kanye, toglici una curiosità: i testi li hai scritti tu?
Un quarto d’ora dopo l’uscita del disco, già erano scoppiate le polemiche su alcune agghiaccianti frasi presenti nei testi del disco, roba del tipo “I love your titties ’cause they prove I can focus on two things at once”. Caro Kanye, la libertà di espressione è sacrosanta. Ma si può scrivere un verso del genere a 40 anni? Per giunta andando a rovinare un disco ideato e prodotto magistralmente? “Let me hit it raw like fuck the outcome/ Ay, none of us would be here without cum” poi è forse il punto più basso della carriera artistica di West, e ci auguriamo basti a far ricredere tutti coloro che lo considerano un genio indiscusso. Poi è ovvio che non lo si riesca a prendere sul serio quando annuncia di voler scrivere un libro di filosofia.
Insomma, Kanye ci ha finalmente dimostrato che sa fare le cose per bene, se vuole, ma sa anche distruggere un lavoro ottimo con una sola barra (facciamo che la prossima volta i testi li scrive Mogol, eh?). Ancora una volta ha bruciato la propria occasione di essere ricordato come rapper più che come arrogante. Qual è la soluzione, allora? Non prenderlo troppo seriamente e godersi semplicemente una delle più concrete e complete testimonianze di quello che vuol dire “black music” nel 2018.