Prima del successo e l’ampio riconoscimento all’interno dell’horror, il nome di Dario Argento si era già posto all’attenzione del pubblico e della critica con l’atipica Trilogia degli animali.
In seguito all’encomiabile esordio con L’uccello dalle piume di cristallo e il successivo Il gatto a nove code, la conclusione della serie spettava a 4 mosche di velluto grigio, una delle opere più celebri all’interno della filmografia del regista italiano. Stilisticamente, il film si ricollega al classico filone del giallo all’italiana, seguendo l’esempio delle due produzioni che lo hanno preceduto, senza escludere delle interessanti innovazioni.
Roberto Tobias, giovane batterista di un gruppo rock, crede di aver ucciso accidentalmente uno sconosciuto, diventando il bersaglio di un folle deciso a rovinargli l’esistenza.
Verrà quindi perseguitato, insieme alla moglie Nina, dal maniaco, che eliminerà sistematicamente tutte le persone che si avvicineranno alla soluzione di questo contorto enigma. Il film, nonostante la trama semplice e inizialmente poco articolata, è dunque un rimando autobiografico alla fine del matrimonio tra Dario Argento e Marisa Casale. Le vicende, dal ritmo compassato ma dense di suspense, seguono senza interruzioni il complicato paradosso di Roberto, vittima consapevole di un anonimo ricattatore.
L’unica apparente fuga dal lineare fluire della trama è rappresentato dal ricorrente sogno, quasi provvidenziale, del tormentato protagonista, e i brutali omicidi del maniaco, osservati in sempre in prima persona.
Tutta questa buona volontà, però, è spesso minacciata da un ritmo soporifero e dai numerosi intermezzi comici al limite del demenziale, invadenti e poco consoni all’atmosfera generale. Non si sprecano neanche delle grossolane spiegazioni e un mancato approfondimento della psicologia dei personaggi, insieme ad una sceneggiatura non troppo ispirata. Dall’altro lato, invece, fanno da contraltare i buoni personaggi, tra cui Diomede, interpretato da Bud Spencer, e la colonna sonora a cura di Ennio Morricone. I contrasti in fase di produzione, purtroppo, porteranno ad una temporanea interruzione del sodalizio Argento/Morricone, fino all’arrivo de La sindrome di Standhal nel 1996. Discreta la fotografia a cura di Franco Di Giacomo.
Quattro mosche di velluto grigio rappresenta l’inizio della maturazione registica di Argento, ora aperto alle innovazioni stilistiche che raggiungeranno il culmine nei capolavori horror successivi.
La memorabile sequenza finale, girata con una macchina da presa speciale da 18.000 fotogrammi al secondo, è un buon esempio dell’ispirazione e l’importanza del regista. Notevole, quanto interessante, l’idea di girare il film navigando in vari posti dell’Italia, donando varietà e una buona dose di creatività all’opera.
La componente onirica di Argento quindi inizia a diventare parte integrante del suo modo di fare cinema, qui sicuramente più marcata che nelle precedenti prove, dai già citati sogni ai salti temporali. Oltre alla valenza autobiografica, purtroppo, la pellicola non offre degli spunti di riflessione interessanti o delle tematiche in grado di elevarla. Il tutto è più che altro una testimonianza, un documento, dell’inizio del percorso che porterà il cineasta alle vette espressive successive.
Ricordiamo che per enfatizzare questa valenza autobiografica del film, le scelte in termini di cast hanno rispettato in parte la fisionomia e l’apparenza della coppia che ha ispirato la pellicola. Una scelta curiosa, quasi a voler trasformare il tutto in un’accusa o un’attacco velato. La trama però scorre, e arriva inevitabilmente alla sua conclusione, con annessa spiegazione del particolare titolo del film.
In finale è il culmine, il punto più alto raggiunto durante tutto il corso dell’opera, con i nodi che vengono al pettine e rivelano l’identità del colpevole, insieme alla sua complessa psicologia, anticipata in precedenza, che lo ha portato a compiere le sue riprovevoli azioni nei confronti di Roberto.
Prima della già ampiamente citata sequenza finale, c’è anche un piccolo ricorso simbolico per l’interpretazione dei precedenti sogni del protagonista, ora come non mai pregni di significato.
Quattro mosche di velluto grigio rappresenta quindi, nella sua interezza, la degna conclusione della trilogia di gialli di Dario Argento e l’inizio del perfezionamento dei suoi tratti caratteristici.
Buone le idee di fondo, anche se l’ispirazione non è stata totalmente rispettata. Nonostante il suo status, non riesce a scrollarsi di dosso la valenza di semplice opera di transizione, tanto sottovalutata quanto minata da evidenti magagne. E’ però fondamentale per capire come il cineasta italiano, qui agli albori della carriera, sia diventato uno dei registi di riferimento sia nel suo genere prediletto, che all’esterno, come fonte di ispirazione per i registi contemporanei.