La Terra Dell’Abbastanza – La recensione in anteprima
La Terra dell'Abbastanza è il film d'esordio dei fratelli d'Innocenzo che tentano senza riuscirci di innovare il filone inaugurato da Romanzo Criminale.
Il cosiddetto filone della “periferia romana”, di storie di vita vissute all’ombra dei quartieri popolari della Capitale, si arricchisce di un nuovo film: La Terra dell’Abbastanza dei fratelli D’Innocenzo.
I registi Damiano e Fabio classe 1988 esordiscono per la prima volta sul grande schermo in maniera coraggiosa e con uno stile tutto sommato personale, ma di certo non nuovo.
La trama del Film
La terra dell’abbastanza è una sorta di non luogo, un quartiere popolare bizzarro dove non si soffre eccessivamente la povertà, ma si aspira ad una vita migliore. Nel quartiere romano di Ponte di Nona, isolato dalla città, fatto da casette di colori sgargianti ma sbiaditi vivono due ragazzi: Mirko e Manolo.
I due investono un uomo in strada per errore, ma il passante era un pentito del clan di quartiere e per questo guadagnano un posto all’interno dell’associazione mafiosa.
I giovani ragazzi, che fino ad allora vivevano una vita normale – scuola, fidanzata, compagnie – saranno sommersi dalla violenza tanto da snaturarli fino alla totale disaffezione verso tutto e tutti.
Il cast del film è veramente snello, ma nel complesso efficace. Andrea Carpenzano e Matteo Olivetti nei ruoli di Mirko e Manolo interpretano due giovani, appena maggiorenni, che pur vivendo in situazioni sociali disagiate accettano la realtà per vivere in onestà, ma che quando si presenta l’occasione per avere soldi e poteri non rifiutano.
I due si sentono come fratelli, amici stretti che non riescono a stare lontani, anche a costo di entrare a far parte di un clan mafioso. La separazione del rapporto di amicizia genera un vuoto nelle loro vite, tanto da far sembrare insopportabile la cosiddetta “terra dell’abbastanza”.
Nelle seconde linee ci sono i genitori dei due, un padre single ed una madre single che vivono agli opposti. Il primo interpretato da un duro Max Tortora, spinge suo figlio verso l’illegalità senza scrupoli; la seconda – Milena Mancini – è una madre giovanissima che cerca invano di “salvare” il figlio dalla criminalità.
Le interpretazioni dei genitori sono spontanee e naturali, due uomini che si lottano contro le difficoltà senza l’aiuto di nessuno. Max Tortora ha definito la sua recitazione come quella di “un piano sequenza recitativo”, ovvero immedesimarsi nella parte a tal punto da girare tutto insieme.
Trovare dell’innovazione in un film con un soggetto simile è molto difficile.
La periferia romana arrivata all’attenzione del pubblico italiano grazie ai vari Romanzo Criminale, Suburra, Non essere cattivo, Sacro GRA ha già espresso molto del suo potenziale e non ha più tanto da dire.
Le velleità artistiche dei due registi – che hanno tanto potenziale – rimangono oscure allo spettatore in una prima visione e vengono apprezzate solo dopo un’acuta spiegazione. Non il massimo per il settore in cui La Terra dell’Abbastanza vuole inserirsi.
La presa di coscienza estrema quanto improvvisa dei protagonisti – che si rendono conto del male compiuto – più che essere tagliente ed aspra è semplicemente confusa.
Dall’altro canto momenti alti di cinema arrivano dalla fotografia affidata al bravo Paolo Carnera.
Bravo nel sottolineare grazie alla luce i momenti chiave in cui l’uomo si degrada moralmente ad una velocità incredibile.
Lo spettatore non potrà non rimanere toccato dall’epilogo della relazione tra Mirko e la sua giovane fidanzata, ormai degradata ad una prostituta come tutte le altre che il clan gestisce.
Interessante anche la lapidaria citazione di Luca Zingaretti nei panni di Angelo, boss a sorpresa, dopo aver commissionato a Mirko e Manolo un lavoro suicida:
“Bisogna far sognare i ragazzi”.
Il tema di base, infatti, è sempre il sogno di una vita migliore all’interno del quartiere di nascita. I personaggi del film non pensano neanche per un attimo di cambiar vita spostandosi, piuttosto – però – di guagnare posizione in quella che diventa una vera e propria “gabbia sociale”.
Tutti elementi che fanno pensare ad un ottimo ragionamento di fondo sulle persone e sulla società (non a caso i D’Innocenzo dicono di essersi ispirati a Pasolini) ma con una realizzazione che non va fuori dai canoni magistrali tracciati da Sollima piuttosto che da Caligari.
Una potenza filmica sparata a salve in un periodo in cui il mercato italiano necessita di nuove storie e nuovi filoni che solo nuovi registi potranno dare.