Calcutta – Recensione Evergreen

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“Ti pare che dite che non vi piace l’album”

Qualche ora dopo l’uscita del suo ultimo disco, Edoardo D’Erme, in arte Calcutta, lancia questa provocazione a tutti coloro (fan, giornalisti, colleghi stessi) che aspettavano con ansia il suo nuovo lavoro, intitolato Evergreen.

Lo aspettavano per due motivi: i colleghi per stroncarlo definitivamente, tutti gli altri per eleggerlo a caposaldo della musica italiana degli ultimi vent’anni. Calcutta lo sa bene, e ha giocato forse l’unica, ma fortissima, carta a sua disposizione: il suo status di leggenda dell’ itpop. Ormai qualsiasi nota lanciata in Rete dal cantautore di Latina diventa contemporaneamente una hit e un capolavoro nel giro di ventiquattro ore; analizzare la musica di Calcutta per ciò che è, estraendola dal contesto, diventa quasi impossibile, così come tirarsi fuori dalla moltitudine di supporter dell’artista. Sembra che Calcutta debba per forza piacere a tutti, e abbiamo già parlato del perchè.

Ma l’itpop non può essere decontestualizzato.

In quanto tendenza, che non sappiamo se sia passeggera o destinata a radicarsi nella musica italiana, pur propendendo per la seconda opzione visti gli innumerevoli precedenti storici (italodisco vi dice qualcosa?), estrapolarlo dal proprio contesto culturale e sociale gli farebbe perdere qualsiasi valenza artistica. Impossibile immaginare l’itpop senza una cornice fatta di maglioni vintage, moscow mule e una malcelata malinconia dovuta al fatto che la laurea in Lettere che sognavi ti sembra sempre più distante dato che sei fuoricorso da tre anni.

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Resta però il fatto che Orgasmo, Pesto e Paracetamolo, i tre singoli scelti dal Jimi Hendrix del nuovo pop italiano, sono riusciti ad uscire con la forza dal loro contesto e ad essere un degno preludio al disco, uscito il 25 maggio per il colosso dell’itpop Bomba Dischi.

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Disco che suona esattamente come dovrebbe suonare.

Così prevedibile da essere imprevedibile, così semplice da sembrare nuovo, così poco pretenzioso da sembrarlo. I vari synth, gli archi a tratti delicati e a tratti ridondanti, qualche chitarra elettrica che sbuca qua e là riescono sempre ad aggiungere qualcosa al piano minimalista che riecheggia profondo in ogni pezzo e ai soliti, strani testi di Calcutta che parlano per immagini.

Non c’è la disperazione illusa di Mainstream, piuttosto una rassegnazione adulta condita con un trasformismo che omaggia la musica italiana: Calcutta vuole fare un po’ il Battisti  lacerato (itpop) in Kiwi e Hubner, un po’ il Celentano irriverente (itpop) in Rai (“Voglio far centro qui alla Rai, voglio restare qui!”), un po’ Cremonini (itpop) che canta in un gruppo dream pop in Nuda Nudissima. Paragoni azzardati ? Certo che no: il buon Calcutta è innegabilmente un cocktail ben shakerato di quarant’anni di cantautori ed interpreti italiani, e riconoscere nei suoi pezzi atmosfere simili a quelle dipinte da Battisti o da Celentano non è certo un sacrilegio, se lo si fa con consapevolezza. È solo un riconoscere determinate influenze, che qualsiasi artista ha e lascia trasparire in maniera più o meno esplicita. Evergreen, sotto questo punto di vista, è sicuramente esplicito.

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Calcutta è il nuovo Battisti? No. Calcutta è il Battisti dell’itpop? Nemmeno. Calcutta infila nel suo itpop (usiamolo ancora una volta, per ribadire il concetto) qualche pizzico di Battisti? Indubbiamente. E dopotutto l’ itpop non affonda le radici nella tradizione cantautoriale italiana? La colpa dei continui fraintendimenti è proprio di chi si ostina a cercare in Calcutta il nuovo Battisti, per timore di ammettere che possa piacergli qualcosa di non universalmente acclamato dalla critica.

La verità sta nel mezzo.

La vera difficoltà durante l’ascolto di Evergreen sta nel non tentare a tutti i costi di doverlo stroncare nè di doverlo eleggere a masterpiece; nell’accettare che possa essere semplicemente un disco pop di un cantautore che non deve essere per forza un genio o un idiota, ma può essere semplicemente sé stesso. E nel riconoscersi in questo non c’è nulla di male, così come nel non comprendere il significato di un singolo pezzo. Non è un disco fruibile come il predecessore; è un disco ancora più legato al passato, che catapulta ancora più indietro dipingendo un’immagine ben precisa: un giradischi impolverato con la puntina su un vinile di Battisti o di Celentano. E il caro barbuto che ci strimpella sopra con una chitarra acustica. Non sarà poetico, ma è sincero. E dove sta scritto che deve piacere a tutti?

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Genere: Itpop
Anno pubblicazione: 2018