Lazzaro Felice – Recensione della piccola santità senza miracoli di Alice Rohrwacher
Al suo terzo lungometraggio la fiorentina Alice Rohrwacher incanta Cannes. Lazzaro Felice è un ottimo film che tocca relazioni sociali, ottimismo, ingenuità ma manca il suo più grande obiettivo.
In un’Italia rurale dove esistono ancora le vestigia della mezzadria vive una famiglia numerosissima di contadini che lavora al servizio della Marchesa De Luna, un’imprenditrice di tabacco che si fregia di un titolo nobiliare decaduto.
I contadini vivono senza luce elettrica, acqua calda, in pieno clima da dopoguerra. Ma siamo negli anni ’90. La contessa schiavizza i contadini tenendoli – come dei nobili selvaggi – nell’ignoranza perfino del concetto di denaro. È il grande inganno, ed è al centro di questo che troviamo un giovane di nome Lazzaro.
Lazzaro è un ragazzo buono, forte, volenteroso, ma soprattutto ingenuo, a cui si vuol attribuire un velo di santità laica. Cammina con i lupi, si salva da una caduta mortale e si risveglia (identico come prima) dopo una trentina di anni.
Intanto la sua famiglia è diventato un caso di cronaca e i Carabinieri portano i 52 membri in città per garantirgli una “vita dignitosa”. Lazzaro li raggiunge e si troverà in una giungla (urbana) più aspra di quella che ha lasciato trent’anni prima.
Dopo il successo ottenuto al Festival di Cannes come Migliore Sceneggiatura, il film di Alice Rohrwacher – Lazzaro Felice – arriva nei cinema italiani.
Scrive Goffredo Fofi: “È un momento formidabile per il cinema italiano”, probabilmente a ragione perchè una ventata di nuove sceneggiature, di nuove storie sta arrivando sugli schermi. Il film della Rohrwacher ha tonalità neorealistiche, la sofferenza dei contadini, l’ingenuità e l’ignoranza, nella crudezza della rappresentazione non possono che generare fortissima empatia e legame emotivo con lo spettatore.
In Lazzaro Felice non c’è luce, sia metaforicamente, sia nella realtà (ai contadini la contessa non concede neanche le lampadine), è un film “al buio”, dove la luna e le stelle continuano ad esercitare una forza salvifica, quasi estetizzante. Le inquadrature di campi, aspre montagne totalmente brulle e desolate non possono che generare un vuoto nel cuore dello spettatore (Malick docet).
Allo stesso tempo, l’unica grande pecca del film, è che si potrebbe accusare di essere troppo pretenzioso nel suo tema centrale: la santità.
Scrive, infatti, Alice Rohrwacher sul film: “Lazzaro felice è la storia di una piccola santità senza miracoli, senza poteri o superpoteri”.
La simbologia, infatti, c’è tutta. Dal nome del protagonista, alla sua morte con conseguente risurrezione, alla simbologia del lupo che teme il santo, del santo che doma la natura. Anche il paesaggio è in un certo senso “biblico”, un po’ come lo aveva sognato Pasolini ne Il Vangelo Secondo Matteo tra gli aspri sassi di Matera.
Il film però dice altro e la sottotrama della piccola santità rimane, per l’appunto, una sottotrama e null’altro. Lazzaro Felice è una grande denuncia sociale, ma manca il suo proposito fondamentale rendendo gli elementi salvifici semplicemente come superflui e inutili alla narrazione.
Il protagonista, ben interpretato da Adriano Tardiolo (alla sua prima esperienza) , è il novello Candido: un giovane che, vuoi per ignoranza del mondo, vuoi per bontà d’animo, è ottimista ed ingenuo. Per Lazzaro non esiste il male nel mondo e se esistesse non sarebbe degno di attenzione.
Il “migliore dei mondi possibili” è la campagna desolata del Centro Italia come la bidonville dove si trasferisce la famiglia a Milano. Lazzaro riesce a trovare la bellezza e la luce anche quando il mondo non smette di rinfacciargli il male e la cattiveria.
Più che un personaggio “beato”, è un personaggio filosofico che non ha paura di superare le avversità estreme che la vita gli riserva, per il semplice motivo che le avversità non esistono se non si conoscono.
È questo, forse, l’aspetto che scava nella coscienza dello spettatore e induce una grandissima riflessione sui rapporti di comunità e la pietà verso altri esseri umani. È un film che, tramite l’assurdo mette in evidenza un mondo buio e selvaggio; una “giungla urbana” dove esiste ancora la luce, e come sempre è negli occhi di chi guarda.