Sudditanza, violenza, tenerezza, angoscia nel nuovo film di Matteo Garrone "Dogman". Qui, in una periferia anonima e desolata, i personaggi vengono alla resa dei conti con le proprie vite in una fotografia cupa ed asfissiante.
A trent’anni dal cosiddetto “Delitto del Canà ro”, uno degli omicidi più cruenti delle cronache recenti, Matteo Garrone scrive e dirige Dogman (traduzione alla buona del soprannome dell’assassino in romanesco), film liberamente ispirato ai fatti del Febbraio 1988.
Il film (stasera su Rai 4 alle 21:19) si ambienta in un vero e proprio “non luogo”, un posto di mare dove il degrado urbanistico ed edilizio fa da padrone: una vera e propria giungla di sabbia e cemento dove si svolgono le vite dei protagonisti. Il film non è ambientato negli anni ’80 ma in un tempo indefinito molto piu recente.
Marcello Fonte è Marcello, un uomo minuto, silenzioso, con una grande passione per gli animali e per sua figlia Alida. Gestisce “Dogman”, uno squallido negozio di toelettatura per cani. Contrapposto vi è Edoardo Pesce che interpreta Simoncino, un cane sciolto che si comporta da boss del quartiere. Ruba, assume cocaina ed è incredibilmente violento.
Simoncino tormenta Marcello, lo costringe a spacciare, a compiere rapine, gli procura difatti una doppia vita. Di giorno onesto lavoratore, di notte complice di crimini. Unica consolazione di Marcello è la figlia e i cani di cui si circonda, ma soprattutto l’affetto del quartiere che – nei limiti del possibile – lo difende da Simoncino.
Quando, però, il suo aguzzino decide di compiere una rapina ad un compro oro del quartiere entrando attraverso il negozio di Marcello, le cose cambiano. Quest’ultimo, per coprire il vero colpevole, se ne prenderà le colpe ed andrà in carcere. Al suo ritorno, l’odio del quartiere che amava gli sarà fatale, e lo costringerà ad un gesto estremo verso il violento criminale.
Dogman: Una storia di potere, sudditanza ed omertÃ
Garrone non si limita a raccontare il mero fatto di cronaca e a far luce sulla verità (diversa da quella processuale, cosa che sta causando tanti problemi legali alla produzione), ma vuole analizzare come in un grande esperimento sociale la reazione collettiva a soprusi ed angherie.
Il regista di Gomorra, tramite una regia focalizzata su ampi spazi vuoti e desolati, e contemporaneamente primi piani quasi “ansiogeni”, riesce a far sentire lo spettatore chiuso da un immaginaria cappa di silenzio ed omertà .
In un quartiere popolare dove lo Stato non c’è e vale la legge del più forte, nulla esce al di fuori dei suoi confini. Le ribellioni non sono possibili ed ogni piano di sottrarsi alle ingiustizie (anche tramite illegalità ) è troncato al nascere dalla paura.
Ma Dogman non è solo la classica storia italiana del lupo contro l’agnello. Anche le vittime son colpevoli, a modo loro, di ammirare il cattivo e di ambire alla sua potenza. Se esiste il boss di quartiere è perche gli abitanti lo legittimano, e questa attitudine è tutta in Marcello.
Uomo mite che, però, non disdegna i soldi sporchi, la cocaina (fino a diventarne dipendente) e le serate in discoteca con il suo amico/aguzzino. Ignavo nel momento di decidere con i ragazzi del quartiere il da farsi, ambiguo nel mostrare le sue attitudini alla figlia.
Paradossalmente i cani c’entrano poco o nulla, a dispetto di quanto si possa immaginare dal trailer. I cani esistono solo dentro la bottega di Marcello come oasi scalcinata di bellezza e amore all’interno della solitudine e della devastazione.
Il rapporto bellezza/squallore non è nuovo a Garrone, ed è portato all’ennesima potenza in Dogman. I cani, dal canto loro, sono spettatori silenziosi, che abbaiano solo quando sentono il pericolo ma sempre e comunque complici dell’umano.
Dice il regista romano parlando del suo film: “All’origine di Dogman c’è una suggestione visiva, un’immagine, un ribaltamento di prospettiva: quella di alcuni cani, chiusi in gabbia, che assistono come testimoni all’esplodere della bestialità umana”.
Tecnicamente parlando il film è perfetto. L’immagine di una spiaggia d’inverno, senza sole, con visi affranti e rassegnati dei protagonisti mentre svolgono una vita dura ed umile è dilatata lungo tutto il minutaggio.
La fotografia riesce a cogliere questo aspetto dalla prima scena fino all’ultima, dove un primo piano semplice, senza artifici di alcun genere, sconvolge la visione dello spettatore, lasciandolo inchiodato alla poltrona fino alla fine dei titoli di coda.Â
Un po’ come i protagonisti del film, inchiodati alla loro realtà , incapaci di uscirne, inermi e conniventi alla bestialità .