Il viaggio di Jon Hopkins verso se stesso, attraverso l’esplorazione dei vari stati della psichedelia.
Nell’astrofisica, la “singolarità” è un punto in cui la curvatura dello spazio-tempo tende a un valore infinito e di fronte ad essa la fisica descritta dalla relatività cessa. Ogni buco nero, al suo centro, contiene una singolarità circondata da un orizzonte di eventi dal quale nessun corpo potrebbe uscire. L’universo stesso potrebbe essere nato da una singolarità gravitazionale. Allo stesso modo, il nuovo artwork di Jon Hopkins, Singularity “inizia e finisce sulla stessa nota in un universo che nasce, si espande e tende al solito punto infinitesimale“.
A 5 anni dal più torbido Immunity, l’esperienza dietro il processo di composizione di Singularity è più simile a quella di un figlio dei fiori nella piena Summer Of Love. Dopo aver fatto esperienza dei vari stati della psichedelia sotto effetto di allucinogeni, Jon Hopkins sembra intenzionato ad esplorare le profondità della psiche: va in pellegrinaggio nel deserto, apprende gli insegnamenti di diversi guru tibetani, impara nuove tecniche di rilassamento e di respirazione per favorire la calma interiore durante la meditazione.
Tutto ciò si riflette immancabilmente in Singularity, in cui Hopkins con il solo sapiente uso della techno-ambient, tenta di replicare le sensazioni e le percezioni provate durante i propri viaggi, quasi a voler prendere per mano l’ascoltatore e accompagnarlo nei meandri della propria interiorità.
Un’intero universo in un singolo album.
L’album sembra esser diviso in due parti: la prima parte, più vorticosa e claustrofobica, caratterizzata dai synth palpitanti tipici della techno, come in Neon Patter Drum e Everything Connected.
Tra questi pezzi più da club, non manca una linea di sequencer armoniosa e un piano-strument come quello di Emerald Rush, brano in cui l’influenza di Brian Eno è piuttosto evidente. La seconda parte è più equilibrata: i battiti energici lasciano il posto all’euforia corale di Feel First Life e alla placida calma del piano di Echo Dissolve.
Tale dissonanza contrappone un’apertura calustrofobica ad un finale salvifico, con cui Jon Hopkins mostra quanto sia difficile guardare dentro se stessi, che non c’è presa di coscienza senza sofferenza e che non si raggiunge la “consepevolezza” senza esplorare l’oscurità interiore, citando Carl Gustav Jung.
Un invito ad evadere dall’urbanità.
Singularity è un invito a scappare dalla routine e dalla mondanità per immergersi dentro se stessi e ascoltare il respiro dell’universo, anche se per soli 62 minuti. E’ un album sorprendente, fresco, intenso, che ogni appassionato del genere dovrebbe avere nella propria collezione. Indubbiamente l’ennesima testimonianza della bravura di un artista poliedrico e talentuoso come Jon Hopkins.