Con The Doors Oliver Stone omaggia un’epoca, una cultura e una generazione.
Il film di Oliver Stone sui Doors non è tanto un biopic quanto la ricostruzione di un mito. Un mito che si celebra nell’epoca stessa degli avvenimenti di un altro suo film, Platoon (1986). I Doors sono parte fondamentale della controcultura degli anni ’60, controcultura seguita da chi combatte in Vietnam, e da chi combatte contro il Vietnam (ossia, contro la guerra). Ma in The Doors c’è di più.
Tramite le vicende dei protagonisti, Stone non ricostruisce solo la storia del gruppo, ma ricostruisce indirettamente le vicende di una generazione. Jim Morrison, John Densmore, Robby Krieger e Ray Manzarek sono giovani californiani annoiati, che passano da una festa all’altra, ubriacandosi e drogandosi.
Jim Morrison (Val Kilmer) è un sex symbol che se la gioca con le ragazze grazie al suo fascino misterioso e alle sue doti poetiche. Sono lui e Manzarek (Kyle McLachlan), studenti di cinema alla UCLA, a decidere di iniziare a suonare insieme. Ma lo fanno non con una missione, o con uno scopo: sembra, quasi, tanto per divertimento.
La controcultura degli anni ’60 era anche questo: giovani borghesi che vi aderivano più perchè sedotti dal fascino anticonformista del rock e delle droghe, che per aderire a un movimento o seguire una causa.
Viene indagata tutta la mitologia dei Doors.
Dal famoso stemma edipico “Mother, I want to fuck you”, che valse loro l’espulsione dal Whisky a Go Go, ai vari arresti e denunce per atti osceni nei confronti di Morrison. Dalla creazione dell’intro per Light My Fire, alla famosa frase “I am the Lizard King, I can do anything”.
Ci sono tuttavia anche risvolti meno “poetici”: il gruppo che vende i diritti di una canzone per una pubblicità; Morrison che, iniziati gli anni ’70, ingrassa, e si rifiuta di levarsi lo stesso paio di jeans di pelle che porta da mesi. A ben guardare, in molte scene lo sguardo di Stone pare più ironico che ammirato.
Quando Morrison fa sesso con una giornalista, i due paiono quasi abbandonarsi ad un rito satanico.
Insomma, un’indagine a tutto tondo che va ben oltre l’agiografia, e che certo evita una mera descrizione degli eventi. Stone è consapevole della doppia natura delle icone controculturali degli anni ’60: da una parte le esalta, dall’altra le smonta. The Doors va letto proprio in questa chiave.
Certi punti vengono accentuati, e certe parti vengono romanzate, perchè The Doors non è dunque tanto il ritratto del quartetto californiano, quanto la descrizione dei sogni e degli incubi di una generazione che ha vissuto tempi straordinari.