Adam McKay ha ottenuto il plauso unanime della critica e visibilità internazionale col suo film del 2015 La grande scommessa, che rielabora in chiave ironica la crisi dei subprime scoppiata alla fine del 2006. Ma in America il suo è un nome ben conosciuto nell’ambito della commedia demenziale, avendo ideato uno schema che si è imposto come punto di riferimento per la maggioranza dei registi che a partire dalla seconda metà degli anni 2000 hanno scelto di cimentarsi con questo genere.
Il film si prepone di esaminare, con la vena sarcastica tipica del regista, la figura dell’anchorman nella televisione americana degli anni ’70.
Figura assai diversa da quella del tipico telecronista che siamo abituati da sempre a vedere nelle televisioni italiane. L’anchorman infatti era una vera e propria personalità mediatica, di fama equiparabile a quella dei presentatori di varietà . Era colui che si occupava della coordinazione dello staff (anchorman = uomo à ncora, ovvero che “ancora” la stabilità del programma) ed aveva l’incarico di convertire in comunicazioni verbali le notizie che gli arrivavano in cuffia in qualsiasi momento, potendole anche incorniciare con battute e considerazioni personali. Per questo, coloro designati a ricoprire questa carica erano personalità di grande carisma, volti dei quali il pubblico si potesse fidare ciecamente, nei quali vedesse un’immutabile fonte di certezze.
Quello di Ron Burgundy, anchorman al comando del notiziario più seguito di San Diego, è un personaggio comico che abbraccia questi aspetti nella loro incarnazione più estremizzata. Maschilista fino al midollo, in possesso di un ego smisurato, ignorante e antiprofessionale a livelli estremi. In ciò, una grande fonte di umorismo è rappresentata dall’illimitata indulgenza del suo capo, Ed Harken (Fred Willard), che data l’importanza esercitata da Ron e dal suo team sui rating del canale, è ben disposto a passare sopra ogni negligenza, anche quelle che metterebbero a rischio la carriera del professionista più quotato.
Il quartetto di professionisti che manda avanti il notiziario è composto da un autentico poker d’assi.
Oltre a Ron, troviamo l’inviato sul posto Brian Fantana (Paul Rudd), tipico playboy anni ’70 dai modi di fare sofisticati ma inequivocabilmente viscidi; il commentatore sportivo Champ Kind (David Koechner), razzista, alcolizzato e dalla sessualità segretamente confusa, e, infine, il personaggio che assieme al successivo ruolo in 40 anni vergine di Judd Apatow ha contribuito definitivamente a lanciare Steve Carell nell’olimpo dei maggiori talenti comici di Hollywood degli anni recenti: il meteorologo Brick Tamland.
Brick è una maschera comica semplicemente da antonomasia: costantemente estraniato dal mondo reale, nulla di ciò che dice ha mai una qualsivoglia attinenza al contesto, virando invece sul nonsense più inimmaginabile. Non ha backstory, non ha evoluzione del personaggio, non ha legami specifici con gli altri personaggi se non quello di essere un loro collega. Esiste solo in funzione di spezzare bruscamente il regolare svolgimento dei dialoghi con dissacranti sproloqui. Ed è proprio nell’assurdità dell’inserimento in una testata di rilevanza nazionale di un simile soggetto, incapace di svolgere alcuna attività che possa vagamente definirsi “professionale”, che la critica sociale del film ai meccanismi dello showbiz raggiunge il suo massimo splendore.
La scrittura comica di McKay trova il suo punto di forza nell’accumulo compulsivo di battute.
La sua è una direzione degli attori molto sciolta, che accoglie di buon grado le loro fenomenali capacità di improvvisazione, le quali danno vita alla stragrande maggioranza del girato che arriva in sala. Infatti è altrettanto immane la quantità di materiale scartato: quello di avere in sala di montaggio il maggior numero possibile di scene da valutare e selezionare opportunamente in base alla qualità delle battute è un ottimo sistema per garantire a questo tipo di umorismo una sua omogeneità tonale, che non stanchi dopo breve tempo. E ciò è possibile solo grazie ad un perfetto affiatamento tra regista e cast (ricordiamo che Ferrell partecipa anche alla scrittura, ha perciò la massima libertà sulle derive della stessa). L’aria di ilarità e leggerezza che si respira sul set dona valore aggiunto all’atmosfera del film, dalla quale lo spettatore molto difficilmente non potrà esserne contagiato.
McKay modella gli eventi della trama su un’impianto puramente assurdo, quasi totalmente privo della causalità presente in una qualsiasi sceneggiatura (anche comica) di stampo tradizionale, e si diverte a sovvertire continuamente le aspettative dello spettatore, il quale in più occasioni verrà colto con le braghe calate. Come nel caso di quella, situata a metà film, che è probabilmente la sequenza più memorabile, nella quale assistiamo ad una repentina escalation di violenza che nel giro di una manciata di minuti infrange consapevolmente tutti i crismi imposti dalla logica umana, al termine della quale Ron pronuncia una battuta che oggi nel gergo americano è divenuta una sentenza quasi obbligata per apostrofare situazioni che degenerano in brevissimo tempo:
Nonostante lo stampo volutamente ed esasperatamente farsesco, McKay riesce molto efficacemente a far riflettere attraverso la risata sugli aspetti sociologici dell’epoca che vuole descrivere. Si intuisce che sotto la costruzione dei dialoghi comici c’è uno studio approfondito e dettagliato del contesto storico, senza il quale molte delle situazioni mostrate verrebbero a mancare dell’input necessario a dar loro un fine che vada oltre la semplice risata di pancia, ovvero quella generata dalle commedie con poche pretese. Questa sua abilità verrà modellata sino ad approdare su territorio più drammatico con La grande scommessa, che gli frutterà l’Oscar per la miglior sceneggiatura non originale.
No. O meglio, si può anche vedere, ma con la consapevolezza che si va a perdere una grande fetta di divertimento, e che se il film non sarà di proprio gradimento con molta probabilità ciò sia da imputare al doppiaggio. Questo non tanto per le voci scelte quanto per l’adattamento dei dialoghi, frutto di un lavoro non in sintonia con lo spirito del film e che si prende parecchie libertà sulle battute anche dove non necessario, facendo nella migliore delle ipotesi appena sorridere in diverse scene che dovrebbero sortire ben altro effetto. Inoltre Pino Insegno, che in seguito diventerà il principale marchio di riconoscimento di Ferrell per il pubblico italiano entrando in completa simbiosi con l’attore, qui appare ancora un po’ titubante e incerto in alcune occasioni. A dimostrazione di ciò, il film in Italia gode di una fama neanche lontanamente equiparabile a quella che ha invece riscosso in madrepatria (da notare inoltre che da noi è uscito direttamente in home video). Su Netflix il film è disponibile con una traccia sottotitoli tradotta fedelmente dai dialoghi originali, per cui la scelta più saggia se si vuol godere del suo vero potenziale è quella di approcciare tale versione.