Doppio Amore e Frantz: il dualismo di Ozon, dentro e fuori dal film
Prima di Doppio Amore, François Ozon ci aveva provato a venire incontro ai premi e al grande pubblico. Al ritmo di diciassette lungometraggi in diciannove anni di attività, il parigino è ormai una presenza fissa, una sorta di habitué nei festival europei. Lo si dà per scontato, lo si aspetta, lo si agogna, e poi lo si snobba. “Arriva Ozon a portare lo scandalo” è un po’ il titolo ricorrente: il francese è il matto, il provocatore, che bisogna avere in concorso ma che è anche necessario tenere a distanza. Il precedente Frantz (2016) era il suo film più lineare, più scarno nella messa in scena (bianco e nero addirittura) e più casto visivamente. Un melodramma in tempo di guerra, raffinato lavoro d’altri tempi. Per il regista di cose come Amantes Criminales e Swimming Pool doveva essere parsa una sorta di auto-castrazione creativa. Doppio Amore (L’Amant Double in originale, 2017) è il suo “ho fatto il bravo, ora mi diverto”.
Ozon, più di ogni altro collega in attività, è forse l’ultimo a poter essere definito serenamente regista di cinema erotico. Sarebbe ovviamente lui stesso il primo a rifiutare l’etichetta: le sue curatissime analisi surrealiste della sessualità borghese occidentale hanno poco a che spartire con Adrian Lyne. In realtà, se per “cinema erotico” intendiamo quel tipo di prodotto che mette esplicitamente al proprio centro la dimensione sessuale dei suoi protagonisti, quale strumento rivelatore di loro stessi e dei loro contrasti, il parigino rientra a pieno titolo nella categoria. Una tradizione cinematografica tipicamente europea, dal primissimo Ken Russell a Bertolucci fino a Bigas Luna, arrivando ad Ozon, che nel 2018 si trova solo e spaesato nel proporsi allo stesso pubblico che ha accolto 50 Sfumature di Grigio con una rabbia calvinista che neanche il nuovo Ultimo Tango. Il 2016 aveva dunque visto il timido tentativo di approcciarsi allo spettatore “medio”. Il risultato della fredda accoglienza di Frantz, è Doppio Amore. Un film pensato e calcolato come auto-parodia, e sfida totale al cattivo gusto di tutti.
Lucio Fulci, Sergio Martino, Edwige Fenech: i padri spirituali di Doppio Amore
In Doppio Amore, Ozon vuole giocare. “Un film ludico”, l’ha definito. Ma a cosa? E’ evidente dalla prima inquadratura: Marine Vacth intenta a farsi tagliare i lunghi capelli di Giovane e Bella (il primo, bellissimo film girato insieme nel 2013) per trasformarsi soddisfatta nella copia di Mia Farrow in Rosemary’s Baby. Il gioco è quello del Cinema: citarlo, riproporlo, portarne al limite gli stilemi e usarli contro sé stessi. L’Amant Double si finge un film psicanalitico, una raffinata dissezione della psiche femminile sulla falsariga dei grandi maestri (Hitchcock, Cronenberg, ovviamente De Palma e lo stesso Polanski), ma il suo intento non è quello di indagare. D’altronde, il thriller psicologico è un genere, per così dire, a perdere: andare oltre i soliti, stra-abusati topoi narrativi codificati dagli autori succitati è quasi impossibile, e se la sorpresa ed il mistero scompaiono, diventa necessario sopperire con qualcosa di altrettanto forte. “Era tutto nella sua testa” non è più un finale soddisfacente almeno dal 1978. Il testo come fucina per generiche metafore non basta più: gli specchi, le fotografie, le scale a chiocciola, le abbiamo già viste. Per fare un thriller psicologico nel 2018 bisogna cercare un impatto visivo talmente potente che giustifichi la pochezza di tutto il resto.
Che cos’è Doppio Amore, in termini di mera categoria? Si presenta come il classico Ozon: surrealismo, sensualità, appartamenti costosi. Poi, di soppiatto, arriva il sangue, lo splatter, l’allucinazione, la morbosità, e a tratti persino le risate. Più che un Cronenberg, ne pare la presa in giro.
Recentemente si è avuto modo di parlare su queste pagine di Una sull’Altra, seminale lavoro di Lucio Fulci del 1969. Il film dava il via ad una piccola corrente a cui raramente si è data approfondita considerazione a livello critico: quella sottocategoria del classico Giallo nostrano (per capirsi, quello figliato da Bava e glorificato da Argento) improntata ai toni lisergici del sogno allucinato, e dell’erotismo spinto. Se in L’Uccello dalle Piume di Cristallo il motore del film (e dunque del voyeurismo degli spettatori) era la violenza, pura e semplice, in questa minore declinazione del genere il selling point era la sessualità malata. Il padrino del filone fu ovviamente Fulci, il massimo esponente Sergio Martino nei lavori con Edwige Fenech. In un picco produttivo raggiunto tra il ’69 e il ’72 (anno di Non si Sevizia un Paperino, apoteosi e pietra tombale sulla corrente), l’allora onnipotente Cinecittà declinava il thriller secondo lo zeitgeist del periodo. Uno zeitgeist che parlava di acido, allucinazione, tabù sessuali infranti e esplosione di un inconscio carnale e omicida. L’Amant Double questo cerca: gioca con le aspettative di chi si aspetta un trattato, e lo trascina in un vortice di visioni perverse il cui solo fine è lo schock.
In Doppio Amore, il personaggio della Vacth è una giovane ex modella, tormentata ed emotivamente bloccata, che sembra rinascere quando conosce e sposa il suo sensibile psicanalista (l’altro sodale Jérémie Renier), salvo poi intrecciare una morbosa relazione con il fratello gemello di lui. Fine del discorso tematico: ogni implicazione non sarà sviluppata se non come estremizzazione parodica di ciò che si è abituati a vedere. Si pretende una spiegazione rivelatrice che giustifichi quanto visto? Quando arriva, è roba degna del peggior j-horror. Ci si aspetta uno scioglimento finale, magari dolce e sottile come quello di Giovane e Bella? Arriva anche qui, uguale: ma è un jump-scare, gratuito e senza senso. Più che quell’Inseparabili (inevitabilmente) tirato in ballo da tutti, L’Amant Double è il rigurgito di Una Lucertola Con Pelle Di Donna, Tutti i Colori Del Buio, Perché Quelle Strane Gocce di Sangue Sul Corpo di Jennifer. Tirati in faccia, con il ghigno di chi va a farsi insultare, al pubblico di Cannes 2017.
E’ difficile, per un certo tipo di platea, accettare che un regista inquadrato decida di prendere una direzione così opposta ed insospettabile. Ci si è talmente abituati, quando si parla di Cannes e di autori francesi, ad aspettarsi le tesi, le teorie, le grandi visioni del mondo e dell’umanità capaci di illuminare le nostra… che diventa spontaneo restare basiti quando un autore decide di fare cinema per divertire sé stesso ed il suo pubblico. Doppio Amore di François Ozon presta i fianchi ad ogni tipo di critica che, soprattutto in Europa, gli è stata mossa. E’ un film stupido, superficiale, legato a stilemi visivi vecchi di quarant’anni, incapace di portare in alcun luogo la sua già poco intrigante promessa di dibattito. E’ anche, non c’è bisogno di dirlo, un fiume in piena di creatività, e l’ennesimo film bellissimo di uno dei più sottovalutati autori in attività.