Michelangelo Antonioni è uno degli autori più importanti del cinema anni Sessanta – Settanta. Non apparteneva a nessuna scuola e non intendeva fondarla. Il suo cinema è autoriflessivo, racconta della borghesia senza enfatizzarla e senza condannarla. È un autore moderno, consapevole, ideologicamente libero e creativo dal punto di vista stilistico.
Rimane una delle conferme più forti di quanto la stagione neorealista sia stata fervida e produttiva. Non si può non notare, infatti, quanto abbia contato nel nostro cineasta la lezione viscontiana. L’operaio inquieto e aspirante al suicidio del Grido (1957) porta dentro di sé l’inquietudine e la rivolta morale del protagonista di Ossessione, mentre si aggira e ha incontri d’amore negli stessi paesaggi desolati e acquitrinosi della bassa padana. Si potrebbe inoltre affermare che il suo primo e breve periodo è propriamente neorealistico, dapprima con Cronaca di un amore (1950) considerato da molti critici un noir a tutti gli effetti, poi con un saggio di sociologia neorealistica quale I vinti (1952) e infine Le amiche (1955).
Ma è lui stesso a definire l’ambiente in cui è cresciuto a fare di lui il regista che noi tutti conosciamo, vale a dire l’ambiente borghese, conosciuto e vissuto ambiguamente come consolazione e insoddisfazione:
“È stato questo mondo che ha contribuito ad indicarmi una certa predilezione verso certi temi, certi personaggi, certi problemi, certi conflitti di sentimenti e psicologie”.
In particolare, a proposito dell’ambiente borghese nel dopoguerra, in quel periodo pieno di ansie e di paure riguardanti il destino del mondo intero, “era impossibile parlare d’altro” afferma nell’aprile del 1959. Ciò che gli premeva esaminare non erano tanto i rapporti tra i personaggi ma piuttosto i cambiamenti e le evoluzioni avvenute nei sentimenti e forse anche nella morale di queste persone dopo la guerra e il dopoguerra.
Con Il grido, del 1957, tenta di superare stili e tematiche dei precedenti lavori per concentrare l’attenzione sull’individuo, sulle sue crisi esistenziali, sul suo vivere in una società che sente estranea. Possiamo ben dire, che tale film, va ad anticipare le tematiche che i film successivi andranno ad approfondire: l’amore, visto come illusione di assoluto, e la solitudine, che pervade il protagonista, spingendolo al suicidio. Inoltre troviamo già l’uso di un paesaggio consonante con i sentimenti degli uomini, un paesaggio che sarà vero coprotagonista della storia.
L’avventura
Il primo dei film che andremo ad analizzare è L’avventura, del 1960. Si tratta del primo capitolo della “trilogia dell’incomunicabilità”, presentato in concorso al 13° Festival di Cannes, fischiato dal pubblico ma vincitore del “premio della giuria”, per il tentativo di sviluppare un nuovo linguaggio cinematografico e per la bellezza delle immagini. In seguito alla proiezione del film, il regista Roberto Rossellini dichiarò:
“L’avventura è il più bel film mai presentato a un festival”.
Per Umberto Eco, con L’avventura e La notte, improvvisamente si sono viste apparire sullo schermo opere che rompevano decisamente con le strutture tradizionali dell’intreccio per mostrarci un fatto accaduto per caso. Nel film che andiamio ad analizzare una delle protagoniste sparisce senza una spiegazione, alla fine viene dimenticata del tutto dagli altri personaggi. Questa sparizione della sparizione funge poi da base per una nuova precaria relazione tra i suoi compagni di viaggio. Nonostantea la bancarotta della casa di produzione, la Imera, l’estenuante lavoro di realizzazione e lo sciopero della troupe, il regista riuscì a completare il suo film.
Il film è infondo un giallo alla rovescia (un mistero irrisolto, che non si sa se sia accaduto, di cui a un certo punto del film non ci si preoccupa neanche più), in cui la storia non ha nessuna importanza, ha importanza lo stato d’animo dei personaggi, rispetto alla storia.
La presenza del soggetto nel mondo diventa passività, un lasciarsi prendere dai fatti, un rinunciare ad incidere. La donna diventa personaggio più autonomo, positivo, nel senso che agisce su se stesso e sulle cose, e non è soltanto la proiezione delle illusioni e delle delusioni del maschio. Intuisce che l’amore porta con sé il peso dell’offesa ad altri (Anna), sente l’approdo alla pietà come soluzione del ritrovarsi compagni di fuga. Anna scompare, lasciando l’ombra della sua presenza: le caratteristiche di lei che abbiamo appreso sono l’instabilità, l’insicurezza, il bisogno di chiarezza. Claudia è chiusa ma disponibile, ambiguamente tesa, avverte l’instabilità, ciò lo deduciamo, per esempio, dal dialogo tra lei e Sandro sul treno, in cui lei afferma:
“Dio mio, è possibile che basti tanto poco a cambiare, a dimenticare? Pochi giorni fa, al pensiero che Anna fosse morta, mi sentivo morire anch’io. Adesso non piango neanche. Ho paura che sia viva. Tutto sta diventando maledettamente facile, persino privarsi di un dolore.”
Il personaggio si chiarisce. La sua è una presenza per alcuni aspetti passiva e pur sensibile, spettatrice e pur reattiva. Non è casuale che sia testimone delle scene che modulano il tema dell’erotismo: all’inizio, quando aspetta Anna, nel frattempo a letto col suo uomo; in treno, dinanzi al goffo approccio; con Giulia sedotta dal principino, il quale vorrebbe dipingerla, ritraendola nuda, nella casa siciliana; con Sandro e la prostituta, nel finale. Il personaggio interferente è quello di Sandro, la mediocrità e l’integrazione. Come tutti i personaggi maschili, Antonioni lo sente meno, a tal proposito, il regista, ha dichiarato: “Do sempre molta importanza ai personaggi femminili, poiché credo di conoscere meglio le donne degli uomini. Penso che attraverso la psicologia delle donne si possa filtrare la realtà, Esse sono più istintive, più sincere.”
Le donne, per quanto viste come trofei, sembrano le sole a salvarsi dall’aridità del sentire maschile. Si pongono domande, vogliono chiarimenti, si logorano in tormenti inesplicabili. Anna, che vorrebbe qualcosa in più del matrimonio, che sembra incapace ad adattarsi alla società e alle convenzioni dell’epoca (e quindi scompare). Claudia sembra il solo personaggio a salvarsi dal totale naufragio dei sentimenti, ad avere ancora rimorsi e sensi di colpa.
I paesaggi che mostra Antonioni sono spesso vuoti e desolati, come vuoto e insignificante è l’eros che nasce dal desiderio. Il sesso viene fatto per noia, in mancanza di meglio, è malato (malattia dei sentimenti, appunto) perché nasce da un impulso avulso dal sentimento, un sesso come surrogato alla comunicazione. Nella descrizione dilatata degli ambienti la macchina da presa sembra tallonare i personaggi, quasi a smascherarne l’ambivalenza. Le psicologie paiono più rarefatte, lasciando lo spazio agli eventi, alla scoperta delle cose, del paesaggio: la scansione della storia è data appunto anche dal mutare del paesaggio, della sua nudità o dalla sua tensione (La Sicilia), dalla sua chiusura o apertura. A tal proposito, il regista, ha dichiarato: “In questo film il paesaggio è una componente non solo indispensabile, ma quasi preminente.”
Lo spazio in Antonioni diventa elemento di composizione:
“Penso che anche questo sia un modo di fare cinema-verità. Attribuire ad una persona la sua storia, cioè la storia che coincide con la sua apparenza, con la sua posizione, il suo peso, il suo volume in uno spazio.”
Antonioni parla dell’uomo e della donna, forse della loro incomunicabilità, ma soprattutto dei loro sentimenti scomparsi e che per quanto proviamo a cercarli non troveremo più, così come scompare e non viene più trovata Anna.
L’amore come illusione di assoluto, amore che non si è capaci di dare, come Sandro, che con tale facilità fa prendere il posto di Anna, nel suo cuore, a Claudia, che non ci mette molto a tradire. In generale, si può parlare di un senso di precarietà dei sentimenti, come Claudia, che a sua volta dimentica l’amica scomparsa, passando da una ricerca disperata di quest’ultima alla paura che questa sia ancora viva e che, di conseguenza, le porti via l’uomo che ama. Ma è il finale a riaccendere la speranza nello spettatore, in quella mano di Claudia che si posa sulla spalla di Sandro (colpevole, come si è detto, di un tradimento), dove c’è una traccia di perdono, di comprensione.
La notte
Si tratta del capitolo centrale della trilogia e del settimo lungometraggio, del 1961, diretto dal regista. Per questo suo nuovo capolavoro, alla cerimonia di premiazione della sesta edizione dei David Di Donatello, al teatro antico di Taormina, Michelangelo fu premiato come “miglior regista”. Pensato inizialmente come un racconto delle vicissitudini di sette coppie in crisi durante una notte, il soggetto viene ridotto e modificato drasticamente dallo stesso Antonioni con l’eliminazione di tutte le storie previste tranne quella principale, di Giovanni e Linda. Confermata è la presenza di Monica Vitti, che in questo caso però ricopre un ruolo marginale, la protagonista femminile è infatti Jeanne Moreau, al fianco di Marcello Mastroianni.
Il film si svolge nell’arco di una giornata, dalla mattina all’alba del giorno dopo. Un arco di tempo sufficiente a mostrare e ad andare ad indagare la crisi della coppia e il senso di insoddisfazione che serpeggia nella società italiana in pieno boom economico. Diventa più evidente il riferimento alla storia, al mondo dell’alta borghesia milanese. Più entra in quel mondo, più aumenta la freddezza. Giovanni è uno scrittore in crisi, spento e integrato, come Sandro ne L’avventura, causa il neocapitalismo che va a cambiare il rapporto arte-realtà.
Assistiamo quindi, oltre che alla crisi della coppia, alla crisi dell’uomo, circondato dal vuoto, assenza dell’amore, ultimo rifugio dell’umanità.
Il sesso e l’erotismo sono qui una indicazione raramente esplicita ma sempre presente, nelle sue sfaccettature: lo spogliarello, l’offerta della ruffiana a Lidia, l’indifferenza del marito, il prologo, dove questa cifra (data dalla ninfomane) fa tutt’uno con quella data morte di Tommaso. La coppia si frange nell’indifferenza, e la donna (lidia) sembra più disponibile, più aperta al recupero. Il parallelo-contrappunto è dato da Valentina (l’incontro tra le due, il loro gioco dell’asciugarsi i capelli testimoniano della non refrattarietà della ragazza) ma il personaggio risulta sfocato, frutto probabilmente di una predisposizione intellettuale, come fosse il tassello di un quadro che si voleva completo nelle sue componenti.
La notte tratta di un vuoto dei sentimenti che è tanto inevitabile quanto casuale, dell’estraneità tra gli uomini.
L’ultima sequenza nel parco è esemplare di questo sviluppo. Qui un paesaggio naturale sostituisce quello urbano in una scena che manifesta il vuoto della relazione tra Lidia e Giovanni. La camminata di Lidia per le strade di Milano non funziona più come specchio della sua identità, ma come espressione della sua estraneità verso un mondo di oggetti dal quale è separata. Così come in altre opere del regista, assistiamo ad una crescente estraneità tanto dal mondo interiore che da quello esteriore. Ma davanti a questo vuoto dei sentimenti, questa estraneità del mondo, la coppia tenta ancora una volta di riportare in vita un sentimento ormai scomparso, facendo l’amore disperatamente. Ma qui non vediamo un barlume di speranza, come invece accade per il film precedente, bensì vediamo una fuga dal confronto con sé stessi e dalla solitudine, un non voler arrendersi ad essa.
Si chiude con L’eclissela trilogia dell’incomunicabilità, nel 1962. Ritroviamo Monica Vitti a dare un volto al personaggio femminile, quello maschile è interpretato da Alain Delon, tra i più grandi attori francesi. Il film viene presentato quindicesimo Festival di Cannes, vincendo il Premio Speciale della giuria. Antonioni ha voluto girare quasi tutte le scene del film nel quartiere EUR di Roma, nelle sue aree residenziali e tra gli edifici costruiti per i Giochi Olimpici ospitati a Roma nel 1960, come i giardini ed il lago artificiale, senza concentrarsi sugli imponenti edifici di epoca fascista.
Tale scelta contribuisce a trasmettere la mancanza di comunicazione tra i personaggi, tra gli esseri umani e il senso di solitudine che vive la protagonista del film, Vittoria. Il quartiere costituito da ampli e desolati viali alberati, non fa che amplificare le difficoltà del personaggio. Il direttore della fotografia è Gianni Di Venanzo, con il quale il regista aveva già collaborato per Le amiche, Il grido e La notte. Le musiche, ancora una volta, sono affidate a Giovanni Fusco, come per L’avventura. Eclisse twist, che fa da sottofondo ai titoli di testa è cantata da Mina, su musica dell’autore e testo dello stesso regista.
La desacralizzazione di un mondo che sembra tuttora ancorato ai valori, la schematizzazione e la prevedibilità dei sentimenti e la loro fragilità, vengono legati ad un contesto per il quale si cerca una definizione: la mercificazione, la realtà produttiva, i meccanismi di accumulazione.
In questo senso prende rilievo la lunga sequenza della Borsa: quel mondo non è più solo luogo di azione, sfondo di una storia, ma una realtà che preme o che sovrasta. D’altronde, anche il tono stilistico si stacca dal resto del film, come un aspetto che si può definire documentaristico. La saldatura dei due momenti, quello sociale e quello individuale, va cercata nell’astrazione. La mercificazione è riduzione dell’uomo a elemento di scambio, a schema (i numeri della Borsa): è un processo che si dilata, che si coinvolge, diventa astrazione (perdita di valore) delle cose e dei sentimenti.
L’occhio di Antonioni in questo film è osservatore, fenomenologo, e analista. In L’eclisse la realtà è contrassegnata dalla morte dei sentimenti e dalla perdita della capacità di intrattenere relazioni soddisfacenti. Mentre in L’avventura, si legge un barlume di speranza, e in La notte una fuga dalla solitudine e dall’accettazione della fine di un amore, qui vediamo invece un’accettazione del confronto con sé stessi e un’accettazione della solitudine, sfuggendo ai sentimenti, di cui quindi vediamo la morte. Sullo sfondo di questo “decesso” il cieco agitarsi di piccole e grandi folle che sembrano aver perso il controllo dei propri gesti (la Borsa).
Conclusione
Lo stesso Antonioni ha parlato di malattia dei sentimenti e ricordiamo la sua analisi dell’uomo moderno, dell’uomo del Novecento, combattuto tra miti romantici e una tecnologia che gli ha permesso di raggiungere la luna.
Il triangolo che si instaura tra immagini, luoghi e progresso conduce a una crisi complessa che può osservata nei suoi film. Con L’avventura parte il discorso sull’instabilità dei sentimenti, con la difficoltà della comunicazione e il vuoto dell’esistenza (borghese). La notte tratta di un vuoto dei sentimenti. L’ultima sequenza nel parco è esemplare di questo sviluppo. In L’eclisse la realtà è contrassegnata dalla morte dei sentimenti e dalla perdita della capacità di intrattenere relazioni soddisfacenti. Sullo sfondo di questo “decesso” il cieco agitarsi di piccole e grandi folle che sembrano aver perso il controllo dei propri gesti (la Borsa).
Le tematiche affrontare sono l’amore, visto come illusione di assoluto (Claudia e Sandro); la solitudine, quella di chi non ha e vorrebbe avere, di chi ha avuto e non ha più (Riccardo ne L’eclisse); la coppia, in cui convivono realtà e illusione; la donna, che nella crisi dei sentimenti è più autentica, più sincera e per ciò disponibile alla pietà solidale; l’integrazione, in una società che sta evolvendo, che va in contro alla modernità. Il paesaggio coincide con i sentimenti degli uomini, un paesaggio che sarà vero e proprio coprotagonista della storia.
Michelangelo Antonioni rimane uno dei più grandi registi del Novecento.
Nel periodo culminante della sua carriera, il regista ferrarese ha dimostrato di essere in grado di collocarsi stabilmente al centro del dibattito nazionale e internazionale, suscitando non solo l’interesse degli addetti ai lavori, ma anche di intellettuali provenienti dalle più svariate discipline. Si può dire che tra i registi del suo tempo, Antonioni sia stato quello che più di tutti è riuscito a cogliere i disagi dell’uomo del Novecento. Collocato in un periodo storico in cui predominano i falsi valori borghesi, sull’amore, ultimo rifugio dell’umanità. Tali disagi sono ancora presenti ed è forse questo a rendere l’opera del regista ancora attuale, ancora capace di emozionare lo spettatore, ancora oggi in lotta con una società in continua evoluzione, culturalmente e tecnologicamente. Se il regista viveva un cambiamento determinato da un capitalismo sempre più emergente e invasivo, ancora oggi uno sguardo lucido sulla società mostra come questa è ancora in una fase di continua evoluzione, a cui non tutti gli uomini riescono ad adeguarsi.
Nell’epoca delle infinite possibilità c’è chi ancora cerca di ancorarsi in una realtà passata e chi cerca certezze che si sgretolano con rapidità fulminea, lasciando un profondo senso di vuoto e precarietà. Per tali ragioni, l’autore di cui abbiamo discusso rimane tutt’ora forte rappresentante della crisi dell’uomo moderno, vittima di una società che pare metterlo al centro ma di cui sente intimamente di non essere che una pedina.