I migliori film del 2017 secondo La Scimmia
Proseguendo sulla strada di una personale rivisitazione degli autori più interessanti del cinema americano degli anni ’90, Martin McDonagh torna nelle sale con l’opera ultima Tre manifesti a Ebbing Missouri. Ora il regista riflette sulla particolare filmografia dei fratelli Coen, differenziandosi dalle opere precedenti per l’eccessivo tentativo emulatore. Crea quindi un equilibrio ricercato la cui leva è da ricercare in una personale rivisitazione, che si fa semplicemente e appassionatamente omaggistica.
Tre manifesti a Ebbing Missouri si costruisce perfettamente, in pieno spirito coeniano
a cavallo tra la black comedy e il cinema più politicamente impegnato. Di fatto l’intreccio narrativo del racconto si fa rappresentazione di una volontà critica di denuncia sociale. Nei confronti di una società ormai consapevole della propria inadeguatezza, ma stanca di vederselo rinfacciare. Contro il dolore di una donna che, causa la sua sofferenza, diventa baluardo contro questa sconfitta sociale.
Il punto di forza dell’opera soggiace sull’umorismo cinico e sarcastico, che contraddistingue il metodo di scrittura di McDonagh, abile creatore di dialoghi e situazioni. Strumenti emotivi, attraverso i quali vengono messi in scena la rabbia e la sofferenza dei protagonisti, che nonostante le loro divergenze, sono vincolati da un legame empatico e morale. Ed è proprio l’umorismo mcdonaghiano che costituisce l’anticlimax comico, che ci proietta, lungo un’escalation emotiva, verso un finale ideale. Tre manifesti a Ebbing, Missouri è sicuramente tra quei film che possono annoverarsi come “instant classic“.
(a cura di Aurelio Fattorusso)
4 – Detroit, di Kathryn Bigelow
Detroit, 1967. Il cantante afroamericano Larry sta per salire sul palco assieme alla sua band: sogna il successo e non vede l’ora di mettere in mostra le sue doti. Prima che possa cominciare a esibirsi, però, il locale viene evacuato a causa dei vicini e pericolosi scontri tra poliziotti e manifestanti in difesa dei diritti civili dei neri. La platea è ormai deserta, ma Larry ha ancora voglia di cantare, poco importa che non ci sia più nessuno ad ascoltarlo. Forse non lo sa, ma è l’inizio di un incubo. Quello della Bigelow è un film corale, che vive della pluralità di volti e di sguardi, un war movie urbano dal sapore documentaristico, un home invasion tesissimo e un dramma giudiziario ancor più claustrofobico, un saggio di regia con macchina a mano, un capolavoro di montaggio, un miracolo di gestione della suspense (basti pensare al ritmo serrato della lunghissima sequenza ambientata tra un corridoio e un paio di stanze e che abbraccia la quasi totalità del secondo atto). È tutto questo e molto di più. Ma è anche solo tutto in quell’immagine, nel sogno (americano) interrotto e nel corso della Storia che cambia il corso delle storie, implicando una presa di posizione, prima di tutto politica: quando tutto sarà finito, per chi vorrà cantare Larry?
(a cura di Alberto Bajardi)
3 – Un sogno chiamato Florida, di Sean Baker
The Florida Project si pone un obiettivo difficile, a tratti impossibile. Come un adulto può cogliere l’intima essenza dell’infanzia? In pochi ci possono riuscire e spesso, questi, sono delle grandi anime, la cui componente infantile è ancora ben radicata nel proprio essere. Sean Baker appartiene a tutti gli effetti a questa categoria e con questo film non solo riesce a focalizzare questa fase della vita ma ne coglie addirittura una sfumatura, una caratteristica assai diffusa: l’infanzia difficile. La storia di Moonee, bimba di sei anni, che vive con la madre Halley – donna sbandata, alle prese con una vita che le è sfuggita di mano- in uno squallido quanto colorato hotel, ci apre gli occhi su un mondo di periferia fatto di semplicità, povertà e malinconia. Lo sfondo rappresentato dalla Florida non mitiga tali sensazioni, il sole cocente, di un’altrettanta cocente estate, non può riscaldare quelle vite rese fredde da una società spietata che ha voltato le spalle ai suoi figli più fragili. L’impotenza di tutti i personaggi è palese, come palese è la nostra impotenza nei confronti di molte vicissitudini della vita legate non solo alla nostra sfera personale ma prevalentemente a quella sociale. Lo stesso direttore del motel, un magnifico Willem Defoe, pur essendo un uomo intenerito da determinate fauste circostanze dei numerosi abitanti del posto, non riesce ad andare oltre, impantanato anch’egli nei suoi drammi e nei suoi doveri. L’aiutarsi è relegato a pochi attimi necessari, ma è palpabile che ognuno è solo in quel delimitato e soffocante motel. La scelta del regista di girare prevalentemente in un solo posto è al servizio di questa sensazione di soffocamento da trappola. Il forte uso dei colori pastello sembra ricordarci un’enorme gabbia per criceti, ove i personaggi si muovono frenetici attuando sempre le stesse azioni. Unica via d’uscita sembra quella costruita promessa di felicità che è il Walt Disney World, meta agognata da tutti i bimbi del film, ma che ad un occhio adulto non può sembrare altro che l’ennesima gabbia per criceti, solamente più grande e più colorata. L’utilizzo della camera da presa, inoltre, pone un effetto documentario che dona al film un aura di “occhio sul mondo” più che da fiction. In The Florida Project c’immergiamo, ci commuoviamo, interagiamo, empatizziamo. The Florida Project è un film da vivere e non solo da guardare ed ha il merito di rappresentare la più alta forma di cinema, ovvero quella che è al servizio del sociale, o meglio, al servizio della rappresentazione verace della realtà, in modo che il prodotto non sia solo un film, ma una denuncia in immagini e suoni.
(a cura di Luca Varriale)
2 – The Killing of a Sacred Deer, di Yorgos Lanthimos
Lanthimos torna due anni dopo The Lobster con un film che fa sembrare quest’ultimo una favoletta Disney. Il regista greco prosegue la sua poetica basata sulla ricerca di un surrealismo sfacciato inserito nella vita di ogni giorno e stavolta lo fa con The Killing of a Sacred Deer, horror psicologico scritto ancora una volta insieme allo sceneggiatore Filippou (che segue Lanthimos ormai dai tempi di Kynodontas). Dopo che The Lobster si era guadagnato il premio delle giuria a Cannes, Lanthimos e Filippou vincono il premio per la miglior sceneggiatura, da sempre un fiore all’occhiello dei film del duo greco.
Lanthimos continua la sua cruda e agonizzante indagine sulla condizione dell’uomo, esplorando questa volta affetti, responsabilità e senso di sopravvivenza. Come sempre le criptiche e surreali vicende raccontate sono metafora di un qualcosa di ben più complesso e sfaccettato. Sullo schermo vanno volti noti come Colin Farrel, Nicole Kidman (in grande spolvero) e Raffey Cassidy, ma la vera star è il meno noto Barry Keoghan, che interpreta il problematico adolescente protagonista, il quale intesse un malsano rapporto col chirurgo Steve Murphy (Farrell), trascinando in un macabro gioco mortale tutta la famiglia del dottore. Come di consueto nei film di Lanthimos la colonna sonora detta il ritmo di ansia e paura in modo magistrale, arrivando a comunicare quasi più delle immagini, cesellate dalla solita splendida fotografia di Bakatakis, altro collaboratore affezionato di Lanthimos.
(a cura di Lapo Maranghi)
1 – Il Filo Nascosto, di Paul Thomas Anderson
Esponente esemplare di un cinema moderno ampiamente debitore alla grandezza del passato, Il Filo Nascosto è la scomposizione analitica di un amore anomalo, di un rapporto masochista che lega Reynolds Woodcock e Alma Elson, protagonisti di un intrigante passo a due, anime irrequiete dominate dalla violenza distruttiva della pulsione autolesionista, volta alla negazione della propria persona.
Confinate in un’atmosfera sospesa ed eterna, incarnata nella superficiale eleganza e nell’eccessiva raffinatezza della haute couture britannica, due menti complesse, insensibili e incapaci di compenetrarsi, si innalzano a simbolo universale, diventando l’esasperazione di dinamiche perverse che esistono all’interno di ogni relazione amorosa.
Seguendo una struttura dall’andamento ascendente, la pellicola assume l’aspetto di un climax che, partendo dalla descrizione del lento logoramento dovuto al corteggiamento, conduce ad un’assordante esplosione finale, in cui l’Io assiste alla propria agognata autodistruzione.
Nell’atipico melodramma di Paul Thomas Anderson, ambientato nella seducente austerità della Londra del secondo dopoguerra, convivono l’impassibilità della cura maniacale per il dettaglio e la potenza dell’esposizione iper-realistica dell’intima sfera emotiva, l’apatica ricerca formale della perfezione e l’attrattiva di un soggetto che, sebbene apparentemente antisettico e largamente analizzato attraverso il filtro cinematografico, poteva essere sviscerato in modo impeccabile solamente dal regista statunitense.
(a cura di Letizia Hushi)
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