I migliori film del 2017 secondo La Scimmia
La Forma dell’Acqua (The Shape of Water) è l’ultima opera di Guillermo Del Toro, autore cinematrografico perennemente in bilico tra il fantastico e l’orrifico. Le sue atmosfere fiabesche, solitamente sempre intrise di inquietudine, qui dominano abbandonando gli stilemi horror per narrare una vicenda che mette al primo posto, come elemento, l’amore. Conquistatore dell’ultima edizione degli Oscar di quest’anno, La Forma dell’Acqua si è aggiudicato quattro statuette, tra cui due dei premi più rilevanti e illustri: miglior film e miglior regia. Una vittoria memorabile per il romantico Del Toro, nato come regista di genere horror (da sempre discriminato dall’Academy), che è riuscito a mettere in scena il film che, molto probabilmente, nella sua carriera ha da sempre desiderato di realizzare. Elisa Esposito (una straordinaria Sally Hawkins), una donna vivente a Baltimora e affetta da mutismo a causa di una recisione alle corde vocali avvenuta durante l’infanzia, lavora come addetta alle pulizie in un laboratorio di proprietà del governo. Qui, vengono effettuati esperimenti particolari col fine di andare in contrasto con i russi. Un giorno, al laboratorio, verrà trasportata una creatura astrusa, umanoide, venerata in Amazzonia come una figura divina. Elisa, che da sempre convive con l’emarginazione a causa della sua diversità, instaurerà un legame con essa, che andrà molto oltre delle sue aspettative. Manifesto della diversità, La Forma dell’Acqua è l’esaltazione della mostruosità come bellezza assoluta. Da un lato, Elisa non è una bellezza tipica e viene esclusa dalla società perché vista come un mostro, dall’altro la creatura aliena è parallela alla donna. Uno è lo specchio dell’altro, visto come diverso da chi si considera normale. Ma qual è la reale normalità? Chi decide cosa sia bello oppure no? Del Toro, utilizzando il cliché dell’umana che stringe una relazione amorosa con un mostro e ispirandosi a tante altre pellicole, varia e decide di portare sullo schermo la storia d’amore tra due individui apparentemente differenti, ma con ogni elemento in comune. La loro peculiarità è ciò che li fa apparire normali e “belli” ai loro umili occhi, non oscurati dal velo superficiale posto sullo sguardo del mondo.
(a cura di Caroline Darko)
14 – Il mio Godard, di Michel Hazanavicious
Mentre sta girando La cinese, il regista Jean-Luc Godard (Louis Garrel) si innamora dell’attrice e interprete del film Anne Wiazemsky (Stacy Martin). Ben presto però, a causa dell’ossessivo impegno politico del regista, il rapporto tra i due incomincerà a sfaldarsi.
Ispirato al libro Tratto cruciale di Anne Wiazemsky, Il mio Godard è un biopic atipico, Hazanavicius sceglie la carta del grottesco per raccontare uno dei registi più celebri (e anche più discussi) della storia del cinema. Con coraggio e con un tono satirico che ha infastidito molti, Hazanavicius sbeffeggia il Godard socialmente impegnato nei mesi antecedenti al ‘68, la sua miopia politica (la metafora esplicita, ma indubbiamente divertente e funzionale, degli occhiali che si rompono nei momenti di protesta) e le sue contraddizioni. Il film però è anche un atto d’amore e di rispetto verso il cinema del maestro francese e riesce ad emularne con precisione maniacale lo stile figurativo, con intelligenza e ironia (abbondano i jump cut, gli sguardi in macchina, le didascalie e la gamma di colori che contraddistinguono i film del suo primo periodo). Molti sono partiti prevenuti, con l’idea di stroncarlo a prescindere, sopravvalutando le idee del regista; Il mio Godard infatti non vuole essere niente di più di quello che sembri, un semplice divertissement e un omaggio all’universo visivo godardiano, ricco di idee geniali e trovate comiche riuscitissime. Una commedia furba, ma acuta e geniale nella sua estrosità. Peccato per come tratti in modo goffo e macchiettistico alcuni personaggi di contorno, come nelle sequenze con Marco Ferreri e Bernardo Bertolucci, le meno riuscite del film.
Da segnalare la fantastica e avvenente prestazione di Louis Garrel, senza dubbio tra le migliori prove attoriali dell’anno, che riesce ad imitare alla perfezione il modo di parlare, le movenze, e i tic del ‘nostro’ Godard.
(a cura di Ettore Bocci)
13 – The Post, di Steven Spielberg
Il thriller politico del 2017 firmato Steven Spielberg racconta la vicenda dell’occultamento dei documenti top secrets sui rapporti degli Stati Uniti con il Vietnam durante il 1960.
La pubblicazione dei Pentagon Papers, i cosiddetti “Quaderni del Pentagono”, diviene il Leitmotiv dell’onesta informazione e della libertà di stampa. L’affaire viene divulgato dapprima dal New York Time, che messo alle strette da un’ingiunzione della corte suprema fu costretto a dare fine alla giusta causa. La fuga delle informazioni riservate tornerà sul campo grazie alla prodezza dell’editrice del Washington Post, Kay Graham (Maryl Streep) e la testardaggine del direttore della testata Ben Bradlee (Tom Hanks).
Spielberg tenta un nuovo approccio al passato che non parla unicamente col solo presente, ma con l’avvenire. Una vera e propria dialettica dell’evoluzione, una riflessione del passato proiettata al futuro in nome di una trasparenza che va oltre l’etica, creando una forte condizione d’esigenza, di necessità. La forma non funziona con la narrativa ma innesca un tacito legame con l’essenza, con l’urgenza, con l’intrinseco significato: un’altra faccia del cinéma véritè che non si offre si simulare la realtà bensì di raggiungerla solo grazie ad esso.
(a cura di Elisa Pala)
12 – A Ciambra, di Jonas Carpignano
A Ciambra è una storia semplice immersa in un contesto difficile. È la storia di un ragazzino alle porte dell’età adulta. Dovrà compiere delle scelte, soppesare la realtà, capire se restare ancora un po’ nelle comode braccia dell’infanzia oppure buttarsi a capofitto nella vita da “grandi”, quella da cui, poi, non si torna più indietro. Sembra davvero tutto lineare, semplice, una storia di crescita come tante, ma non è così. Il protagonista di A Ciambra è Pio, un ragazzino appartenente ad una comunità Rom calabrese. Pio è tra due fuochi: la difficile, instabile e caotica vita gitana e la Calabria, terra mitica e martoriata, ove tutto sembra essere lasciato al caso, nulla controllato. In un valzer di etnie, seguiamo Pio nella sua crescita, accelerata dall’arresto del fratello, ed onorata da un peso troppo grande per uno che non è né un ragazzino né un uomo. Pur fumando, bevendo e rubando da sempre, Pio troverà nella responsabilità dell’aiutare la sua famiglia un peso che lo costringerà a prendere delle decisioni prima del previsto. In una corsa affannata, il nostro protagonista sognerà quella cultura gitana selvaggia di cui il nonno è memoria storica. Pio vorrebbe solo respirare, correre, vagare, come i suoi avi, ma il mondo è palesemente cambiato e il ragazzino dovrà fare i conti con i problemi e le brutalità del presente, fatte di povertà e sopravvivenza.
Con A Ciambra, Jonas Carpignano ha realizzato un film che sa di vita vera, di quelle che prendono a schiaffi e ci accompagnano fuori dalla campana di cristallo che ci circonda. Tutto è verità, tutto è vita. Passiamo attraverso le esistenze dei dimenticati, degli umili, dei ladri, dei corrotti, dei criminali, degli adulti affaticati, dei bambini maltrattati, dei bambini che non sono mai stati bambini. A Ciambra è senza dubbio il miglior film italiano del 2017. Recuperarlo è un obbligo, un imperativo.
(a cura di Luca Varriale)
11 – L’altro volto della speranza, di Aki Kaurismaki
Parlare di crisi migratoria, crisi economica, crisi esistenziale nel gelo del Nord Europa, e farne una commedia. Operazione senza alcun senso, e quindi ancor più clamorosamente importante nella sua riuscita. Il diciottesimo film di Aki Kaurismaki (sei anni dopo Miracolo a La Havre, che ne appare quasi come un preludio) affronta le tematiche più importanti nella maniera più difficile, e vince: perché la tragedia ricattatoria e melodrammatica sarebbe stato l’approccio più logico, ma quello della commedia surreale è il migliore, ed è il campo in cui l’autore finlandese non ha rivali. L’Altro Volto Della Speranza pone ancora una volta lo stile artefatto e anti-realistico di Kaurismaki di fronte a un dramma sociale contemporaneo, e riesce come forse mai prima a farsi racconto serissimo della realtà, attraverso la sua parodia. La storia del clandestino siriano ad Helsinki, in fuga dall’alienante centro di accoglienza per evitare l’estradizione, avrebbe prestato volentieri i fianchi al dramma di denuncia (meno l’esilarante gruppo di ristoratori che lo accoglierà, mandati in bancarotta dalle disgraziate mode del cibo hipster-etnico). L’Altro Volto Della Speranza racconta invece dei reietti d’Europa attraverso la lente del sarcasmo, dell’assurdo, e infine addirittura dell’ottimismo. E diventa, senza neanche volerlo, uno dei film più importanti sulla vicenda.
(a cura di Saverio Felici)