Il Prigioniero Coreano, la recensione del film più politico di Ki-duk
Un film politico ed intenso. Con Il Prigioniero Coreano, Kim Ki-duk sforna una fortissima denuncia sociale di un paese diviso geograficamente e politicamente ma con molto in comune.
Torna al cinema delle origini Kim Ki-duk e lo fa con il suo nuovo Il Prigioniero Coreano. In un delicato momento storico, il regista autore di grandissimi film come Ferro3 e Moebius, racconta una storia di uomini ancor prima che di politica. Come accadde nel 2002, con The Coast Guard, unendo il dramma alla sua poetica di denuncia, Ki-duk ci porta in un paese che ormai sembra essere sull’orlo del collasso diplomatico. Un macrouniverso che racchiude quello di un semplice pescatore, costretto dalla cattiva sorte ad affrontare un fato decisamente avverso.
La giornata di Nam Chul-woo inizia con la solita routine di un pescatore nordcoreano. Si alza, fa colazione ed esce. La sua barchetta fatiscente lo aspetta ma non prima di aver superato i fiscali controlli della polizia. La corrente del fiume in quel fatidico giorno porta verso Sud e bisogna prestare attenzione a non scavallare quelle boe che delimitano il trentottesimo meridiano. Ma per Chul-woo, pescare equivale a vivere. Non può far altro che sfidare la natura per portare a casa il cibo. Capita però che la natura vinca e che la rete si impigli nell’elica del motore, portandolo oltre il confine. Da lì in poi, Chul-woo sarà prelevato dalle autorità nemiche e trattato come una spia da un feroce e frustrato aguzzino che dovrà estorcergli una confessione. O ancora peggio, una diserzione.
Una legge del contrappasso dantesca colpisce Chul-woo, che si trova dunque incastrato nella rete capitalista di una Corea del Sud frenetica ed opposta alla grigia Corea del Nord. Ne Il Prigioniero Coreano, Ki-duk si sofferma sulla mancanza di umanità che aleggia nelle due Coree, dando una lettura politica molto scomoda che accomuna di fatto i due paesi rivali. Se da un lato troviamo una dittatura ideologica, dall’altra il regista ci mostra una violenza “occidentale“, in cui il benessere mal distribuito regala una ricchezza solo di facciata. E dove tutti si sentono salvatori ed esportatori di perfetta democrazia.
La prima parte del film si concentra in particolar modo sulle brutali torture psicologiche (e fisiche) che Chul-woo è costretto a subire dai promotori della libertà che a suon di posaceneri usati come arma bianca, vogliono costringere il povero pescatore all’abiuro. Cosa che non accadrà , in quanto la voglia di tornare dalla propria famiglia vince su ogni violenza.
Quando tutto sembra concludersi per il meglio, ecco che spunta l’altra faccia della medaglia. Il suo ritorno in Nord Corea, coincide con il suo ingresso in un luogo dove si ripete la medesima situazione. Le autorità di Kim Kong-un devono capire se l’ideologia capitalista abbia o meno corrotto l’animo di Chul-woo. E così le vessazioni si ripetono allo stesso modo. Cambiano spazio e tempo ma paradossalmente non ciò che lo circonda. Ed è questo quello che Kim Ki-duk vuole raccontare: la politica delle Coree attraverso lo sguardo di un semplice uomo. Le costrizioni, le vessazioni che egli è costretto a subire a causa di un semplice incidente che lo costringeranno ad un viaggio omerico in cui il ritorno a casa non sarà felice come lo fu quello di Ulisse.
Il Prigioniero Coreano è probabilmenteil film più diretto e politico di Kim Ki-duk. Uno spaccato sociale che tuttavia porta lo spettatore alla medesima conclusione. Non bada alla retorica come in LaSamaritana, tantomeno all’allegoria presente in Ferro3. Questo suo ultimo film va diretto al punto, peccando forse un po’ nel suo essere schematico ma la sua forza è proprio nell’essere diretto. Punta dritto al sodo anche grazie alla prova superlativa di Ryoo-Seung Bum che fa trasparire alla perfezione lo stato d’animo di un personaggio colto da una sfiducia verso il mondo intero. La Seoul piena di spreco e finto benessere da un lato, un regime che lo tradisce dall’altro. Un girotondo infinito attraverso un mondo che non riesce a capire ed un altro che non lo vuole più.