Il Neorealismo di Baker e del suo “Un Sogno Chiamato Florida”

Un film intenso, uno dei migliori del 2017. Sean Baker costruisce una storia di vita vera riallacciandosi al Neorealismo, raccontanto gli ultimi in un contesto che ha molto in comune con quello italiano del secondo dopoguerra.

Un Sogno Chiamato Florida
Condividi l'articolo

Probabilmente uno dei migliori film dell’anno passato che in Italia uscirà con il titolo Un Sogno Chiamato Florida (qui la nostra recensione). Dopo Tangerine, interamente girato con un iPhone, Baker prosegue con la sua poetica tanto cara al cinema indie di Korine raccontando una storia pregna di neorealismo. E lo fa attraverso gli occhi di Moonee, una bambina che vive sola con la giovane madre, Halley, in uno squallido motel della periferia di Orlando, Florida. Ragazzi di borgata, per parafrasare Pasolini. A capo di questo motel troviamo Bobby, un Willem Dafoe burbero ma dal cuore tenero, che suo malgrado non riesce a non affezionarsi a questa famiglia spezzata dal disagio. Prova ad essere l’angelo custode di un inferno colorato. Prova a dare dettami e ad imporre regole, vanamente. Quel motel è ormai in balia di sé stesso. E di quell’immagine violacea ripulita e fittizia, che vorrebbe essere qualcosa di migliore ma che in realtà non è.

Con questo Un Sogno Chiamato Florida, Baker indaga gli ultimi, gli emarginati, i figli bastardi del capitalismo americano che si sono fermati solo all’ingresso di quel parco giochi che garantisce benessere e bella vita. Proprio lì, alle porte di Disneyland, dove ci sono solamente negozi ed espedienti truffaldini per arrivare alla fine della giornata con qualche pasto sullo stomaco. Halley incarna lo stereotipo della giovane madre rinunciataria, che non riesce a rimboccarsi le maniche per uscire da quella mefitica situazione e che non riesce ad educare sua figlia, sulla quale gli assistenti sociali incombono. Moonee però non riesce a vedere il brutto che gli sta offrendo la vita e continua a sognare, fuggendo incosapevolmente da quella fogna colorata di viola come effetto paliativo.

LEGGI ANCHE:  The Florida Project - La recensione in anteprima

Un Sogno Chiamato Florida

Corre, gioca, fa danni, rigorosamente insieme ai suoi piccoli amici. Baker ci racconta così una Florida ben diversa da quella felice ed a misura di famiglia. La sua camera scende nei bassifondi trasformando il ridente Stato americano in un’ambientazione che ricorda i film neorealisti, dove la disperazione post conflitto mondiale viene sostituita da quella di una crisi economica sfrenata ed incontrollata a stelle e strisce che colpisce le classi più disagiate. Madre e figlia, l’opposto di Antonio e Bruno di Ladri di Biciclette sebbene con il medesimo legame di sangue. Coppie solitarie che provano ad andare avanti. Provare a sopravvivere nell’America della crisi o nell’Italia del dopoguera. Due imprese non da poco che adranno a culminare in un finale analogo, pieno di lacrime.

Moonee vaga incosciente in questa realtà che ancora non l’appartiene ma che già l’ha fagocitata, girovagando tra le lunghe strade piene di negozi. In questo senso, l’estetica di Baker gioca molto sulle inquadrature fisse, concatenate tra loro e con il leitmotiv di un determinato negozio che fa da sfondo alla vita dei piccoli bambini. Girano in tondo, Moonee & co., girano sempre in quegli spazi monotoni, dove a cadenza regolare si invola un elicottero verso il cielo. Poco per chiunque, tantissimo per i loro giovani occhi.

Un microcosmo che racchiude il macrouniverso, paradossalmente. E che magari è ormai dimenticato, nascosto sotto un ipocrita tappeto di finto o maldistribuito benessere. L’America della crisi, l’Italia post guerra. Un parallelismo azzardato ma probabilmente funzionale a raccontare ciò che accade dietro le quinte. La disperazione di chi ormai non conta nulla, camuffata con un abbigliamento da pop star, e che fa spallucce di fronte a ciò che le accade, sopravvivendo di giorno in giorno.

LEGGI ANCHE:  La Star di 8 anni di The Florida Project è alla regia di un cortometraggio

Un Sogno Chiamato Florida

Baker osserva, ora con inquadrature fisse e simmetriche, ora con piani sequenza di pregevole fattura, tenendo sempre una certa distanza rispetto all’azione. La musica è assente per tutto il film, eccezion fatta per lo struggente finale che rimanda a I 400 Colpi di Truffaut, in cui Moonee entra a contatto con la squallida realtà che la circonda e che con un ultimo grido d’aiuto abbandona la sua innocenza una volta per tutte ed in cui Baker si lascia andare ad un rallenty. Corre Moonee, corre verso Disneyland, mano a mano con la sua unica amica rimasta che la porta a vedere quel mondo che non ha mai visto e che forse ha solo lontanamente immaginato. Corre verso una speranza anch’essa camuffata, artificiale ed artificiosa. Siamo lontani da un ideale e reale happy end.

Come accade nel Pieles di Eduardo Casanova, in Un Sogno Chiamato Florida troviamo una dicotomia tra lo sgargiante e rassicurante rosa lilla ed una storia profondamente toccante, la poesia della regia di Baker e le vicende narrate. Una tesi narrativa ed un’antitesi visiva che scontrandosi tra loro amplificano il triste messaggio (e racconto) che Baker vuole darci, insieme ad una visione altamente pessimista di tutto quel luccichio ben lontano dall’essere oro.