La Scimmia intervista La Maschera

La Maschera
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Faccia a faccia con il frontman de La Maschera.

Dal novembre 2014, anno di pubblicazione del disco O’ vicolo ‘e l’alleriaLa Maschera si impone nel panorama musicale napoletano come una tra le realtà indipendenti più interessanti e di maggiore appeal sul pubblico. È un viaggio tra i vicoli della città, il racconto in musica di storie, personaggi, amori, contraddizioni, vizi, sogni e speranze. ParcoSofia, il secondo disco de La Maschera, una delle band più ricercate della scena indipendente campana.

ParcoSofia è l’ecosistema in cui convivono armonicamente storie e personaggi diversi, opposti. Un mondo dove gli eroi non sono altro che uomini comuni con la loro vita straordinariamente normale. Viaggi, infanzia, vita e ricerca sono alcuni dei temi predominanti. In occasione di un live tenuto a Bologna, un rappresentante de “La scimmia” ha incontrato Roberto Colella, il frontman del gruppo.
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ParcoSofia, il secondo album prodotto in studio e pubblicato nel novembre del 2017. Qual è l’idea alla base di questo nuovo progetto musicale? Dove trae l’origine del nome e l’ispirazione? 

ParcoSofia è il tentativo di unire due mondi che sembrano apparentemente distanti ma non lo sono. Il mondo africano e quello napoletano. Il nome deriva da una realtà esistente, il posto in cui sono nato e cresciuto. Un parco, un agglomerato di case popolari, che si chiama per l’appunto “Parco sofia”. Quando cercavamo di unire questi due mondi, “Parco Sofia” era perfetto perché è un incrocio tra la Napoli verace e la giungla africana. In cui vivono miracolosamente persone con dinamiche sociali completamente diverse, con problemi non semplici e riescono a superarli in maniera armoniosa. Poi “Parco Sofia”, volendo ricercare il significato delle parole, vuol dire “moderarsi in sapienza” in un’epoca in cui sembra che tutti sappiano tutto. Diciamo che questo è stato il filone, voler fare un omaggio alle radici, anche quando tutte le canzoni sono nate lontane da quei luoghi. È stato un momento nevralgico della mia vita.

Sono passati tre anni dall’ultimo album O’ vicolo e l’alleria, come mai questo tempo per giungere ad un altro lavoro? 

Diciamo che non sono stati tre anni di lavoro in studio, ma abbiamo suonato live continuamente, che è la cosa che ci piace fare di più. Comunque credo che un disco abbia una vita proprio, per uscire lo decide da solo. In generale le canzoni anche, io nn ho il dono della scrittura. Pensando ad un argomento, decidendo di scrivere e trattarlo così su due piedi. Capita a volte di stare da solo in una stanza ed esprimere un pensiero che mi piace il giorno dopo. Quando scrivo una cosa che mi piace particolarmente me la converso e magari diventa una canzone. Sono stati anche tre anni in cui si è ricercato qualcosa nelle storie del vissuto, anni di ricerca umana e musicale. Cosa che ha portato all’incontro con Laye Ba e al Senegal e all’esperienza con Daniele Sepe in “Capitan Capitone”. Sono stati tre anni abbastanza ricchi.

La musica, come l’arte, è un modo per esprimere sé stessi. Per esprimere esperienze rielaborate dalla nostra soggettiva. Cosa cercate di esprimere voi con la vostra musica? Quale messaggio cercate di trasmettere? Se c’è. 

Non credo che la musica debba trasmettere necessariamente un messaggio, credo che il più delle volte c’è già. Perché ognuno mostra già una propria soggettività, una propria visione e spesso questa visione si spersonalizza nei testi, oppure viene fatta vivere ad una terza persona. Spesso accade così che l’ascoltatore si immedesimi con il cantante, che poi non è sempre chi scrive. Ci sono vari messaggi. Il primo disco aveva un’impronta, marcatamente sociale. Il secondo tratta tematiche diverse, ad esempio c’è “Palomma e’ mare” che racconta del popolo senza catene innamorato del padrone. Viene raccontato attraverso un simpatico aneddoto, di mio nonno che diversi anni fa pescò un piccione. Usare questo escamotage è una delle cose che mi ha divertito di più. In altri casi sono storie di vita quotidiana, di personaggi che riescono a superare difficoltà incredibili e vivere con dignità. Volendo sottolineare, che uno degli aspetti più belli e più eroici delle persone è l’eseere normale.

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Quali sono le influenze, i riferimenti musicali che vi hanno portato a fare musica? 

Parlo per me, è successo per caso. La prima canzone è nata a due anni ed è stata “Pulcenella”. Ho sempre ascoltato molta musica estera. Ero fan appassionato dei Led Zeppelin, dei Pink Lloyd, dei Queen. Essere particolarmente curioso e ascoltando tanto, mi ha portato a cresce e a suonare. Il mio mito è Paul Simon, è stato ed è uno dei più grandi riferimenti. Poi c’è stata l’esperienza con Daniele Sepe, che è un musicista straordinario. Il Frank Zappa napoletano. Veramente riesce a trattare qualsiasi genere con una maestria straordinaria.  Ho avuto la fortuna di avere a che fare con lui e di stringere un rapporto oltre che musicale anche umano. Che mi ha permesso di imparare un sacco di cose e gliene sono molto grato. Ogni incontro ti lascia qualcosa. Per esempio grazie a Laye Ba ho ascoltato la musica africana, del Mali e del Senegal.

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Parlando appunto dell’incontro con Laye Ba, quale è stato il maggior apporto che ha dato nella vostra crescita? E com’è stata l’esperienza in Senegal con lui? 

Con Laye Ba è nato un rapporto per caso, stavamo suonando a piazza Dante a Napoli e lui era lì ad ascoltare. Dopo ci siamo salutati e mi chiesto di incontrarci ancora perché aveva apprezzato molto la nostra musica. Il giorno dopo ci incontrammo e la prima cosa che uscì è “Te veng a cercà” che nacque di getto. Da lì stringemmo un rapporto molto stretto che l’ha portato a confidarsi con me e confessarmi di voler tornare in Africa. Facemmo un paio di concerti per mettere insieme di soldi per andare. E partimmo insieme, lui disse che era una grande super star in Senegal, noi non ci credevamo tanto, ma quando arrivammo lì vedemmo che era davvero una superstar. Quell’esperienza ci ha portato a vivere il Sengal dei quartieri popolari, la sua casa, la sua famiglia. Abbiamo vissuto da vicino quella realtà africana, che ci ha permesso di capire cose straordinarie da un punto di vista musicale e americano, che è difficilmente descrivibile.

Parlando invece nello specifico del singolo Te veng a cercà? 

Non c’era un’idea, eravamo là insieme. Io suonavo un giro di chitarra e lui cominciò a cantare e anche io. Appena finiamo ci spieghiamo la traduzione e abbiamo scoperto di aver parlato della stessa cosa.

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Qual è stata l’evoluzione de La maschera dal primo al secondo album? Quali sono state le trasformazioni? Si possono riscontrare sonorità simili in entrambi. 

Di base quella è la nostra matrice, che non so se perderemo mai e speriamo di no perché quella è la musica che amiamo. Sicuramente nel secondo si è voluto sperimentare d più, anche perché è il nostro modo di divertirsi. Ognuno dovrebbe pensare in primi a divertirsi e poi pensare nel caso a dinamiche commerciali. Però in questo disco avevamo voglia di sperimentare fondendo la componente napoletana con sonorità africane.

Dunque durante questi tre anni tanti concerti in giro per la Campania, addirittura un sold out al teatro Bellini di Napoli. Quali emozioni avete provato durante queste esperienze? 

Ci sono stati una serie di sold out inaspettati e il Bellini addirittura 10 giorni prima, un sogno suonare al Bellini. Leggere già solo il manifesto è stata una grande emozione. Lo realizzi il giorno dopo a volt. Si è andata sempre allargando questa famiglia che si stringe attorno al nostro gruppo. Ad esempio è molto bello vedere ai concerti altri musicisti, non è una cosa da poco. Se penso al concerto allo “scugnizzo liberato”, al Bellini o all’Arenile; la cosa stupenda è stata vedere tra il pubblico Dario dei Foja, Tommaso Primo, alessio Sollo. Cioè vederli proprio al concerto, non come ospiti ma tra il pubblico, per essere di compagnia per darci un appoggio sul quale poter contare. Ed è un po’ la forza di questa comitiva che si è creata a Napoli, una comitiva aperta.

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Credo si possa parlare di un grande successo che avete riscosso nel napoletano, tra il pubblico partenopeo. Quali credete siano i motivi per cui avete raggiunto questo livello? Imponendo sulla nuova scena musicale napoletana.  

Tendo sempre, forse per scaramanzia, a non vederlo come un grande exploit ma sicuramente è aumentato il nostro seguito. Ma allo stesso modo c’è tanto da crescere e ancora tanta strada da fare. Forse uno dei meriti principali è stato quello di aver fatto tanta gavetta. Di aver suonato tanto, in giro, nei locali. Chiedendo di poter suonare a chiunque. Non lo so onestamente, io personalmente posso dire di aver cercato sempre di mantenere una certa coerenza con quello che faccio e portando sul palco quello che siamo realmente. Chi ci conosce bene veramente sa che siamo “cinque cap e cazz” che si divertono continuamente stando insieme, che il pubblico forse apprezzata.  A me questo piace come mi piace suonare. Se la gente sta bene è la mia soddisfazione più grande

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Vorrei parlare di due singoli che personalmente apprezzo molto La confessione e Pullecenella. 

La confessione è nata su una montagna, ad ariano irpino. Al centro del racconto c’è questo prete, ed è lì gioco, spogliare una persona che per tanti non si spoglia mai. Però anche quella è nata per caso scrivendo finimmo per trattare argomenti abbastanza seri, e serviva un veicolo super parte, a metà tra l’uomo e dio, e venne fuori la figura del prete, nonostante non venga mai nominato nel testo. È stato un gioco. Ci sono volute due settimane per cercare di capire dove potesse andare a parare nel testo. Ed è diventate così teneramente intimo l’impossibilità di sapere con certezza lui cosa fa. È un atto d’amore alla fine.

In Pullecenella sembra, soprattutto dal videoclip, come se ci fosse un passaggio di testimone tra vecchie e nuove generazioni così che la cultura napoletana non possa mai spegnersi.  

In parte è questo il significato, nella scena finale Pulcinella dà la sua maschera ad un ragazzo che indossa costumi o maschere, uno scugnizzo che in realtà vive la sua vita senza maschere, con pochi stracci. Sta a significare che oggi la città è stanca di questa maschera, di certi stereotipi e stranamente il divertimento era usare la maschera di pulcinella per sovvertire questa condizione. È una persona che pensa a sé stesso ignorando gli altri. Si canta un motivo allegro con una malinconia grande, c’è una sorta di dualismo intrinseco allo stesso modo degli stereotipi, che fanno apparire bella una cosa brutta. Il gioco era creare un eroe e antieroe che vive in un non luogo, il vicolo dell’allegria che non esiste.

Quali sono i progetti futuri per la maschera 

Suoneremo ancora tanto secondo me, perché ci piace suonare. Scrivere e ascoltare tanto. Probabilmente fondere alle nostre sonorità melodie elettroniche, minimali. Verranno fuori cose strane. Vedrete.