Concetto assodato che dal macro si trasferisce sempre al micro, Tomb Raider in questo caso: non sempre quantità significa qualità. Su questo non ci piove. Si può riassumere così il nuovo film tratto dall’omonima saga di videogame. Un’attrice premio Oscar non salva la baracca, nemmeno se si chiama Alicia Vikander, meravigliosa in The Danish Girl, fuori luogo per questo reboot. Sia chiaro che il problema non è assolutamente la Vikander in sé, sebbene sembri visibilmente a disagio e più somigliante alla Katniss di Hunger Games nelle movenze e nella gestualità. Anzi, probabilmente la sua (scarsa) credibilità nei panni di Lara Croft è l’ultimo dei problemi di questo film. Liberamente ispirato al penultimo capitolo del videogioco, questo Tomb Raider dovrebbe mettere la parola fine ad altre eventuali trasposizioni. Non ci era riuscita Angelina Jolie, non ci è riuscita Alicia Vikander. E, torniamo a ripetere, il problema non riguarda la scelta dell’attrice.
Chi ha giocato al riavvio di Tomb Raider nel 2013, troverà la trama del film una riproposizione ridotta all’osso di quella del videogioco. Il che non può e non deve certamente essere considerato un problema dal momento che parliamo di due mondi completamente opposti. Si troverà di fronte tuttavia ad un film a livelli, diviso in due banalissime parti, che vorrebbero regalarci la trasformazione di Lara Croft da ragazza a donna, da fattorina a degna erede di suo padre Richard Croft (Dominic West). Un prologo ci racconta la storia di una strega giapponese, Himiko, che fu confinata su un’isola deserta e irraggiungibile per porre fine alla sua tirannia. Il padre di Lara, noto esploratore da sempre ma non in questo caso, è sparito nel tentativo di andare a recuperare questa reliquia prima che cada in mano alla Trinità.