Occhiali e cappello dentro uno dei film musical più amati di sempre.
La prima annotazione da fare su The Blues Brothers (stasera su Iris alle 21) di John Landis, film che tutti avete visto e rivisto, è la seguente: questo è un film Reganiano. il 1980, anno di uscita del film, è anche l’anno in cui Ronald Reagan viene eletto presidente degli Stati Uniti. Che significa Reaganiano? In ambito culturale, che è l’ambito che ci interessa, il termine indica un ritorno ai valori conservativi dell’eccezionalismo americano nell’epoca pre-assassinio di JFK. In altre parole: gli americani sono migliori, belli e capaci in tutto.
Più o meno come si ragionava negli anni ’50, insomma. Ed è proprio questa l’epoca a cui, grosso modo, si guarda quando si fa un film Reaganiano. Non è niente di programmatico, solo interviene un enorme moto di nostalgia per un’epoca in cui un americano poteva ancora essere fiero di dirsi tale. Moto di cui, alla fine degli anni ’70, dopo il Vietnam e il Watergate, in America si sente l’estremo bisogno.
Ecco perchè la commedia di John Landis si preoccupa innanzitutto di essere un film disimpegnato e divertente.
Scandaloso ma conservatore, dirompente ma rispettoso, alternativo ma commerciale. La pellicola cucita sullo sketch dei Blues Brothers, portato in scena da John Belushi e Dan Aykroyd dapprima al Saturday Night Live, è costruita per accontentare un pò tutti. Ci si prende in giro, si ride, tanti inseguimenti, situazioni paradossali e battute brillanti. E tanta, tanta musica.
La musica, obbligatoriamente, è nostalgica anch’essa. Non si parla esattamente degli anni ’50, ma più in generale, scavalcando il “blues” del titolo, del soul/r’n’b a cavallo tra quel decennio e il successivo. Partiamo dalle ospitate eccellenti, altro sicuro veicolo di successo per il film: James Brown, Cab Calloway, Aretha Franklin, Ray Charles, John Lee Hooker. Tutti artisti di rottura che integrano la tradizione americana con l’emancipazione afroamericana e che, allo stesso tempo, hanno poco a che fare con l’ambiente hippie.
Ai tempi di Reagan, si guardava infatti agli artisti di quest’ultimo circolo come a coloro che avevano “sporcato” la musica americana.
Il rock and roll rozzo, arrabbiato, cerebrale e fumato degli anni ’60 viene accuratamente evitato. Al suo posto bei pezzi blues, soul e r’n’b, con omaggi al gospel, allo swing e alla cultura popolare. Non è un caso che, per ammansire il pubblico di rednecks scontenti, il gruppo decida di suonare persino il tema western Rawhide, composto da Dimitri Tiomkin, maestro del genere, e Ned Washington, .
Una simile logica della citazione e della strizzata d’occhio prosegue nella scelta delle canzoni. Dalla classica Jailhouse Rock di Lieber/Stoller (famosa la versione di Elvis), alla Gimme Some Lovin’ dello Spencer Davis Group (nell’originale, voce e tastiera di Steve Winwood). Dal tema di Peter Gunn, universalmente amato, composto da Henry Mancini, a Sweet Home Chicago, un’originale del 1936 di Robert Johnson, padre del blues. Se poi aggiungiamo lo sfogo femminile (…-nista) di Aretha Franklin con Think, l’effetto è completo e il pubblico compiaciuto.
Ciliegina sulla torta, per i musicofili, della band fanno anche parte Steve Cropper e Donald Dunn, membri originali di Booker T. & the M.G.’s, due dei più importanti sessionmen di sempre. Avete presente Sittin’ on the Dock of the Bay di Otis Redding? Assieme a lui, l’ha scritta Steve Cropper. Per dirne una.
Insomma, The Blues Brothers è un enorme insieme di citazioni, riferimenti, omaggi e ammiccamenti fatto per mettere tutti d’accordo. La colonna sonora, suonata o solo udita (cioè digetica o extra-diegetica), è composta di canzoni che innalzano il nome della grande musica popolare americana (e non: lo Spencer Davis Group era inglese…).
Dagli anni ’30 agli anni ’60, la parola d’ordine è: divertirsi.