Sentieri Selvaggi – La fine del grande Western americano

Sentieri Selvaggi e la fine del Western - Alla fine degli anni '50 il cinema americano si preparava a cambiare per sempre. A partire dal genere americano per eccellenza: il western.

Sentieri Selvaggi
Condividi l'articolo

Sentieri Selvaggi e la fine del Western – Nei suoi scritti, il grande critico fondatore dei Cahiers di cinéma André Bazin considerava il western come il genere americano per eccellenza.

La sua presenza nelle sale è solitamente fatta risalire al 1903, data della proiezione di The Great Train Robbery di Edwin Porter. Da allora, nella storia della settimana arte ha avuto alti e bassi, ma è rimasto una costante nel mondo in continua evoluzione di Hollywood. Anche oggi quando ormai sembra essere stato accantonato, viene spesso citato e rielaborato dalle nuove generazioni di registi. Fino ai primi anni sessanta, tuttavia, è stato un vero e proprio pilastro della cultura a stelle e strisce, che veniva esportato in tutto il mondo con grande successo. I leggendari volti di John Wayne, Gary Cooper, Henry Fonda, Kirk Douglas e James Stewart erano conosciuti da tutti, con grande merito di una generazione di registi di grande mestiere come John Ford e Howard Hawks.

Con il dopoguerra finisce però il periodo d’oro del western.

Sono ormai lontani i capolavori come Ombre Rosse (1939), su cui un maestro come Orson Welles ha dichiarato di aver studiato la regia per il suo primo film, Quarto Potere. Negli anni a seguire si assiste quindi ad una graduale variazione del genere. I temi della wilderness, della civiltà bianca e la barbarie dei pellerossa, della giustizia di frontiera e dell’eroe solitario e senza macchia rimangono, ma cominciano ad essere messi in dubbio.

È in questo contesto che nel 1956 John Ford porta sul grande schermo uno dei suoi capolavori: Sentieri Selvaggi.

Neanche a dirlo, ancora una volta il protagonista è John Wayne. Il personaggio, che Wayne ha interpretato già numerose volte, sembra il solito. Bianco, eroico, un asso con le armi da fuoco, un duro amato da tutti. E così viene interpretato all’epoca. Arrivano anche accuse di razzismo, insieme ad una tiepida accoglienza da parte della critica mondiale.

LEGGI ANCHE:  Mank | Recensione del nuovo film Netflix di David Fincher e Gary Oldman

Sentieri Selvaggi

Il personaggio di Wayne, Ethan Edwards, non è più soltanto l’eroe dei tempi passati.

Ha un passato oscuro alle spalle. Torna a casa dalla guerra di secessione soltanto dopo tre anni. Tre anni di cui non abbiamo notizie, ma che alcuni segnali (come l’amuleto lasciato alla nipote e la grande quantità di denaro che possiede) sembrerebbero ricondurre ad una carriera da mercenario al confine con il Messico. Ethan è un uomo irrequieto, che sembra nato per stare sul campo di battaglia. Quando si metterà alla ricerca delle due donne rapite dai Comanche apparirà come più ispirato dall’idea di massacrare gli indiani piuttosto che salvare le donne.

Ethan è insomma l’icona del cinema western portata all’estremo, tanto da essere la denuncia stessa di questo sistema di valori.

Ford, con questo film, ha realizzato in realtà un film che diventerà presto una pietra miliare del genere. È senza dubbio il western più complesso che abbia mai girato, con importanti risvolti psicologici, sociali e storici. Indiani e settlers sono messi finalmente sullo stesso piano. Sono gli ultimi anni di un sistema destinato ad essere annientato dalla legge che presto porrà fine alle violente scorribande. Scorribande che qui sono ritratte in maniera uguale da una parte e dall’altra.

Non esiste differenza tra la violenza dei pellerossa e quella dei coloni.

Gli indiani non sono più stereotipati e ritratti, in modo manicheo, come semplici cattivi. Le loro ragioni sono davanti agli occhi di tutti, esattamente come quelle dei bianchi. Un’ambiguità di fondo aleggia per tutta la pellicola: le parti si fanno confuse. A questo, Ford aggiunge elementi ancora oggi molto discussi come il rapporto fra Ethan e la moglie di suo fratello, Martha. Secondo molti critici, infatti, sarebbe più volte evidenziato in maniera visiva un possibile rapporto amoroso tra i due, in contrasto con la stabilità della famiglia. La splendida sequenza iniziale, con Martha sulla soglia della porta mette subito in chiaro le dinamiche che regoleranno le due ore della pellicola.

LEGGI ANCHE:  5 elementi che rendono The Hateful Eight un gran film

Ford parla prima per immagini, come solo i grandi sanno fare, dividendo nettamente il selvaggio deserto dal sicuro ambiente casalingo.

s cradlePer chiudere il discorso su Ethan, quando finalmente, dopo anni di ricerca, troverà la nipote Debbie, si troverà di fronte ad un dramma esistenziale.

Oramai la ragazza non è più una di famiglia, non è più bianca.

Sposata al capo dei Comanche, Debbie è diventata a sua volta una pellerossa, che rifiuta di essere “salvata” da Ethan. L’uomo, in un gesto estremo, preferirebbe uccidere la ragazza piuttosto che lasciarla alla sua nuova vita. Solo l’intervento di Martin, vicino degli Edwards e con lui alla ricerca della donna da tempo, risparmia una triste fine a Debbie. Quando però, nel finale, si manifesta la possibilità di salvarla, si risevlgia la sua parte umana. Salva la donna per affidarla alla famiglia Jorgensen. L’ultimo gesto di un uomo in profonda crisi che cavalca verso il tramonto di un’epoca.

Sentieri Selvaggi

Perché di questo si tratta

Il tramonto del western comincia qui per terminare pochi anni dopo, ma non prima di essere stato decostruito dai registi italiani nello spaghetti-western e in patria con autori come Sam Peckinpah. Oggi Sentieri Selvaggi è ritenuti da molti il film western più importante, che più ha saputo condensare in esso l’epopea del selvaggio west, smarcandosi da una produzione seriale spesso banale e poco veritiera riguardo i reali fatti e motivazioni dell’epoca.

Un ritratto non ideologico di quella che è l’origine del popolo americano, nato dalle violenze della guerra civile e del selvaggio west, in cui Ford ha condensato tutta la sua sapienza narrativa e visiva.