Pasolini e l’estetica rinascimentale – Le corrispondenze tra dipinti e film
Pier Paolo Pasolini si dedico al cinema lungo tutta la sua vita. Elaborò uno stile personale fuori da ogni schema al servizio della sua ideologia. L'estetica, quindi, non è un fattore trascurabile. Le corrispondenze tra inquadrature filimiche e i capolavori dell'arte rinascimentale e manieristica.
“Come si chiama il tuo ragazzo?”“Margherita”, queste sono le ultime battute prima della chiusura del sipario sulla filmografia di Pier Paolo Pasolini. Come l’ultimo assolo di un chitarrista o gli ultimi versi di un poeta prima della morte.
Nonostante abbia diretto diversi lungometraggi, Pasolini non è regista e non è interessato a diventarlo. Non è regista perché la sua formazione non è cinematografica, come non lo è il suo modo di pensare. Ciò rende le sue opere filmiche un esperimento quasi unico al servizio dell’ideologia, la sua ideologia che trascende ogni sua opera.
A tratti neorealista (in Accattone, Mamma Roma), a tratti esponente di Novuelle Vague (Il Vangelo Secondo Matteo), spesso regista di un suo stile personale e a stento descrivibile come in Salò o le 120 giornate di Sodoma. Pasolini ha dato un immenso contributo al cinema italiano, fu regista in forza del suo ruolo di intellettuale: uomo in grado di esplorare diversi mezzi comunicativi per esprimere il proprio pensiero.
Ad ogni modo un catenaccio tra le sue varie opere, diverse in genere e contenuto, si può trovare ed è quello artistico. Oltre al filone marxista-umanitario che lega trame ed interpreti (spesso amatoriali, persone comuni), la presenza dell’arte rinascimentale e manieristica è spesso presente nelle sue inquadrature; a volte palese, riproducendo l’opera come un grande presepe vivente, a volte latente: una grande carica artistica pervade la filmografia pasoliniana.
Mamma Roma
Il parallelismo forse più noto è presente nel film Mamma Roma del 1962. Interpretato da Anna Magnani e Ettore Garofalo (cameriere scelto da Pasolini per interpretare il ruolo di sottoproletario), parte da un fatto reale di cronaca: un ragazzo muore legato ad un letto di costrizione nel carcere romano di Regina Coeli. Pasolini decide di scrivere una sceneggiatura e chiude il film con la tragica morte del ragazzo in carcere.
La scena principe del film non è lasciata al caso. Pasolini scomoda Andrea Mantegna e prende in prestito il suo Cristo Morto. La carica espressiva del dipinto rinascimentale sta nel conciliare la classica iconografia delle donne piangenti al capezzale del cristo morto nell’audace prospettiva con la quale è rappresentato il cristo stesso. Mantegna pone lo spettatore ai piedi di Cristo in una simbologia quasi blasfema.
La stessa cosa verrà fatta da Pasolini: Ettore legato al letto è il Cristo immolato, e lo spettatore è in una posizione privilegiata, quasi indiscreta per coglierne la sofferenza. Sebbene nella scena manchino coloro che piangono il defunto (come nel dipinto), Pasolini rimedia affidando una memorabile tragica interpretazione alla Magnani nella scena successiva.
Sempre nello stesso film un altro riferimento è afferrabile nella scenografia. La scena iniziale è girata durante un banchetto di nozze. Una particolare inquadratura è molto simile all’iconografia dell’Ultima Cena, se non proprio al famosissimo Cenacolo di Leonardo. Un filo conduttore parallelo sulla vita di Cristo?
Il Vangelo Secondo Matteo
Opera enigmatica del 1964, racconta in maniera apparentemente neutrale la vita di Gesù Cristo, dall’annunciazione alla crocifissione. Il film fu soggetto alla solita ondata di critiche che succedeva ogni nuova uscita, ma questa volta le critiche arrivarono dalla sinistra. “Un ottimo film, più cattolico che marxista”, dicevano. Fu lo stesso Osservatore Romano a definirlo come “il più bel film su Gesù di tutti i tempi”. Il protagonista interpretato da Enrique Irazoqui, un sindacalista diciannovenne spagnolo, è un cristo umano e solo. Una figura, a suo modo, rivoluzionaria.
Alcune corrispondenze sono rintracciabili anche in questo film. Nel celebre “Discorso della Montagna”, un lungo monologo in solitaria del Cristo, la luce arriva sul volto del protagonista in maniera caravaggesca. Fa perdere allo spettatore ogni punto di riferimento spaziale e temporale, con il volto di Irazoqui che ricorda, in un intermezzo tra notte e giorno, quello dei protagonisti (anche quelli decapitati) dipinti da Caravaggio.
La Ricotta
Episodio diretto da Pasolini parte del film Ro.Go.Pa.G (con episodi di Rossellini, Godard e Gregoretti), è una parodia in piena regola del sacro. In particolare dell’episodio della Passione, ripreso da attori che sembrano interessati a far tutt’altro che immedesimarsi nel sacro. Cameo anche per Orson Welles, alterego di Pier Paolo, che si prende gioco di un giornalista arrivato per intervistarlo. L’episodio è in bianco e nero, salvo passare al colore per mettere in scena – quasi teatralmente – due famosissime deposizioni: Rosso Fiorentino e Pontormo.
Le due scene son quasi una riproduzione teatrale, un presepe vivente, come accennato prima, di due grandi opere del manierismo italiano. Non hanno una vera e propria valenza ai fini della trama, se non quella della parodia del sacro; salvando e rispettando, però, l’estetica dei dipinti.
Film del 1971 e primo della Trilogia della Vita insieme ai Racconti di Canterbury e Il Fiore delle Mille e una notte. I tre film sono un inno alla vita rappresentata tramite la sessualità, lo scherzo e il corpo. Pasolini, dato anche il tema delle sue storie, tiene ad impiegare attori non professionisti che riescano ad esprimere la purezza del proletariato. Nonostante Ninetto Davoli e lo stesso regista siano attori, molti sono ragazzi alla loro prima esperienza davanti alla cinepresa.
Il film è girato in lingua napoletana e seleziona appositamente alcune novelle “tragi-comiche”. Il progetto vuol tenere fede anche in sede linguistica a ciò che è stata l’opera di Boccaccio. I richiami artistici, anche in questo caso sono molti e profondi. Pasolini vede nel Decameron qualche elemento che lo rimanda alla pittura fiamminga, e in particolare quella di Bruegel il Vecchio, grande pittore vissuto nel XVI secolo. Artista, tra l’altro, molto caro all’Italia dato che ci spese tanto tempo e ci lasciò opere dall’immenso valore.
Il regista prende a modello Il Trionfo della Morte con la ripresa del carro di teschi e di figure umane senza meta che riempiono la scena in una sorta di visione, tema molto caro a Pasolini. Presente anche la Parabola dei Ciechi nella processione composta da storpi che fanno movimenti sconnessi, come se volessero cadere, come se fossero – per l’appunto – ciechi.
Ultimo richiamo, che sempre rasenta il blasfemo, è nell’episodio di Ser Ciappelletto. Il peccatore incallito, che in fin di vita si prende gioco del sacerdote che lo confessa, ricorda scandalosamente (ancora una volta) il Cristo Morto di Mantegna. Questa volta non in posizione prospettica, come in Mamma Roma, ma nel volto, nell’espressione e nella mimica. Una morte “da santo” realizzata in una maniera esteticamente perfetta, e che non manca l’occasione di proporre un paragone audace e provocatorio.
In questi dettagli, in questi richiami, si avvalora la tesi di un uomo che ebbe come punto di forza il non essere regista per essere libero da schemi, riti e costrizioni.
Pasolini creò un suo cinema personale per esprimere a tutto tondo le sue convinzioni e le sue idee.
Le sue opere filmiche andarono di pari passo con la sua produzione letteraria, realistica, metafisica e corsara. D’altronde, come lui stesso disse nei panni di un allievo di Giotto, “Perché realizzare un’opera quando è bello sognarla soltanto?”.