Dopo Fantastic Mr. Fox, torna l’animazione nel cinema di Wes Anderson e torna con L’isola dei cani. Un film d’animazione in piena coerenza con lo stile del regista, fatto di colori pastello e con la continua simmetria in ogni sua inquadratura. Presentato al 68° festival di Berlino, L’isola dei cani propone di nuovo un racconto sulle problematiche legate al mondo umano attraverso una storia di animali che funge come filtro. Siamo in un futuro distopico, vent’anni dopo i giorni i nostri. Tutti i cani presenti nella città di Megasaki sono stati allontanati a causa di un virus e segregati in un isola insieme a tonnellate di spazzatura. Ghettizzati come dei veri e propri reietti. Ci penserà Atari, un bambino di dodici anni, a risolvere la situazione. Fondamentale sarà l’aiuto di alcuni suoi coetanei appartenenti alla “resistenza“.
L’isola dei cani, la recensione del nuovo film di Wes Anderson
Un film d'animazione, il più politico di tutta la filmografia di Wes Anderson. L'isola dei cani riesce a coniugare armoniosamente moltissimi elementi, dalla formazione alla politica, in piena coerenza col suo stile simmetrico.
L’elemento principale del film è senza dubbio l’omaggio di Anderson alla cultura giapponese che va ad incontrarsi e mescolarsi con lo stile geometricamente perfetto del regista de “I Tenenbaum“. Tutto ciò che permea la cultura visiva orientale è presente in questo film, dai dipinti di Hokusai al cinema di Kurosawa fino ai più recenti manga, come il grande manifesto presente alle spalle dell’antagonista di turno. E qui subentra un’altra caratteristica che rende L’isola dei cani il film più politico di Anderson. La presenza di un sindaco che appare più come un tiranno che manipola la società a suo piacimento dividendola sempre di più.
Parallelamente Anderson affronta anche la tematica del diverso, di colui che si trova ai margini della società e non certo per sua scelta. La ghettizzazione in quell’isola fatta di spazzatura e reietti come unico strumento per esaltare la razza felina, considerata la più pura. E ancora, un vero e proprio calcio alla scienza, alla razionalità ed al pensiero. Tutto per salvaguardare una tradizione sbagliata, come ci racconta il prologo del film e come ci confermeranno poi i vari flashback che caratterizzano lo stile narrativo frammentato.
In questo contesto, il viaggio intrapreso da Atari alla ricerca del suo cane sarà l’occasione per crescere e per far crescere il branco di cani ma soprattutto Chief, l’unico randagio in mezzo a tanti cani da salotto e mascotte. Subentra quindi anche una parte formativa ben costruita, coerentemente con la poetica del road movie. Nel viaggio di Atari, sarà proprio il personaggio meravigliosamente doppiato da Bryan Cranston a slegarsi dalle catene ribelli di una libertà mascherata. E conseguentemente a crescere grazie proprio alla presenza del bambino. Un microcosmo che riesce a cambiare un macrocosmo profondamente sbagliato e vittima di pregiudizi. E soprattutto di muri e ghetti. Con L’isola dei cani, Wes Anderson riesce ad armonizzare una serie di elementi coerentemente con il suo stile altrettanto armonioso. Dalla politica alla formazione fino alla denuncia.