Sei anni di lavoro per un film maestoso sull’opera dell’uomo. Koyaanysqatsi è un documentario del 1982 diretto da Godfrey Reggio (molto apprezzato, tra l’altro, da Chistopher Nolan). È il primo film della trilogia Qatsi, che comprende Powaqqatsi (1988) e Naqoiqatsi (2002).
È un’opera senza alcun personaggio o struttura narrativa, i quali cedono il posto ad una serie di immagini evocative riguardanti la civiltà e la sua frenetica evoluzione, mirando ad evidenziare gli effetti che l’uomo ha avuto sulla terra; il tutto accompagnato dalle musiche del compositore Philip Glass.
Si parte dal principio, con immagini della natura e delle forze che la governano, le quali sembrano essere le uniche padrone di un mondo apparentemente incontaminato.
Fin dall’inizio, attraverso la colonna sonora, la parola Koyaanisqatsi viene ripetuta come una formula magica, una profezia della quale lo spettatore non riesce a cogliere il significato.
Ad interrompere quello che sembra il processo eterno della natura è l’apparizione del motore come mostro distruttore, il quale viene mostrato prima ancora della figura umana.
Compare come simbolo ossimorico della costruzione e della distruzione. È così che all’interno del film viene presentato il genere umano, creatore della macchina e contaminazione nei confronti di un equilibrio perfetto, quieto ed immutabile. Cambia anche la musica, che diventa più incalzante. Ed ecco quindi sfilare sullo schermo i simboli della civiltà umana: fabbriche, grandi macchine a motore, bombe nucleari. Essi irrompono non come forza vitalistica ma come un’entità fuori luogo nel contesto dell’ordine armonico della natura. I grattacieli sono sì segno di civiltà, ma le loro costruzioni appaiono anche come Moloch, non solo oggetti, ma alla stregua di entità divine sovrastanti e minacciose.
Il film esamina i particolari più stretti di alcuni aspetti della società, come i mezzi di trasporto, le catene di montaggio o il turismo di massa, ponendoli al centro di quell’enorme microscopio che è la macchina da presa.
In questo modo la visione dell’oggetto preso in considerazione viene decontestualizzato, perde ogni significato e ci appare ridicolo, fuori da qualsiasi senso. L’essere umano è sempre partecipe in modo diretto del mondo in cui vive e della sua società, immerso in uno stato semicosciente nell’operosità senza sosta della civiltà. Ma in questo momento lo spettatore è costretto ad osservare ciò che vede come se fosse un estraneo, e come conseguenza ciò che vede appare bizzarro e fuori da ogni senso logico.
La fotografia è lucida, il ritmo del montaggio, ora accelerato per evidenziare l’insonnia del capitalismo e delle metropoli, ora lento per cogliere le sfumature delle nuvole e i colori dei deserti, è in perfetta sintonia con la colonna sonora di Glass.
Quest’ultima ha un ruolo fondamentale nella conduzione di un racconto che va avanti per accostamenti di immagini e analogie, concorrendo a creare non solo un certo tipo di ritmo, ma anche uno stato d’animo.
Il film è una sinfonia della frenesia umana, con ovvi rimandi a L’uomo con la macchina da presa (1929), di Dziga Vertov. Si ha l’esaltazione dell’attività, del fare, della velocità, proprio in una società nella quale non solo le persone viaggiano su binari (scale mobili), ma anche il cibo (catena di montaggio). Ciò che qui viene stigmatizzato è il fatto che tutto ciò che costituisce la potenza e la forza dell’uomo è allo stesso tempo la sua debolezza.
Durante tutto l’arco della durata ci viene fornito un surplus di informazioni che sovraccaricano lo spettatore, ma queste informazioni non forniscono una conoscenza maggiore per chi guarda, il regista Reggio si limita a mostrare lucidamente dei fatti. L’atto è dunque quello della denuncia, o meglio ancora dell’avvertimento. È il significato stesso della parola Koyaanisqatsi, la quale inizialmente sembrava priva di ogni senso, mentre adesso, sul finale, questo ci viene rivelato, nello stesso modo in cui viene rivelata una verità allarmante.
La parola Koyaanisqatsi, in linguaggio Hopi significa vita pazza, vita fuori dall’equilibrio, vita che si disintegra.
Ed è così che viene riassunto il significato di ciò che ha accompagnato la nostra visione: una profezia oscura nei confronti del futuro, ma allo stesso tempo un invito al cambiamento. È indicativo il rimando ad una saggezza ancestrale, la popolazione Hopi, lontana dalla contemporaneità e fortemente caratterizzata da un legame con la natura, e pertanto dotata di una certa autorevolezza. Più che una perdita dei valori viene condannata una perdita dei ricordi, delle radici che legano gli uomini alla terra.
Il montaggio, le inquadrature, la fotografia e le sapienti musiche di Philip Glass sembrano essere un tutt’uno, conciliandosi alla perfezione e dando vita ad uno degli spettacoli documentaristici più evocativi di sempre.