Con La classe operaia va in paradiso, Elio Petrieffigia l’Italia del boom economico e dell’autunno caldo, l’Italia dalle enormi speranze, l’Italia che sognava la redenzione.
Ludovico Massa, detto Lulù. Trentun anni e due famiglie da mantenere. Milanista e stacanovista. Amato dai padroni e odiato dai colleghi. Sostenitore del lavoro a cottimo.
Operaio.
Nella sua apparente mediocrità, Ludovico Massa, detto Lulù, si erge a figura esemplare, un uomo come tanti altri scelto per simboleggiare la massa, un personaggio del popolo che diventa eroe tragico. Attraverso questo degno rappresentante di un’intera categoria sociale — quella del proletariato —, il regista si sofferma ad analizzare il morbo dell’industrializzazione, che, spargendosi rapidamente, contamina la società con i propri semi mortali.
Sono le sei e quaranta del mattino e Ludovico Massa, detto Lulù, si sveglia. Sono le otto e inizia a lavorare. Disgiunto dall’armonia della natura, il ritmo della fabbrica regola quello della quotidianità proletaria. L’alternarsi di giorno e notte, lo scorrere delle stagioni, la successione di semina e raccolto, di nascita e morte: nulla di tutto questo.
Siamo ormai distanti dal vivere agreste, fondato sulla stabilità dell’equilibrio e sulla ripetitività dei cicli naturali: per gli operai, la luce del sole non splende più.
La classe operaia va in paradisoè il resoconto dell’esistenza di Ludovico Massa, segnata da un incidente sul lavoro, in seguito al quale perderà un dito. Dopo quindici anni passati in una condizione di assoluta alienazione, il protagonista deciderà di redimersi, abbracciando gli estremismidel movimento operaio e schierandosi contro il lavoro a cottimo, scelta che lo porterà al licenziamento, all’abbandono della compagna e a sfiorare quel sottile confine che separa sanità mentale e follia.
Verso la fine degli anni sessanta, nello scenario politico italiano, si assiste ad una progressiva proletarizzazione della lotta politica: quest’ultima abbandonate aule magne e ambienti formali delle università, si stabilisce nelle fabbriche, trasformando, agli occhi della borghesia, gli operai nei responsabili della minima scossa, del minimo male sociale.
Un cinema politicamente impegnato, quello di Elio Petri: il regista romano delinea i caratteri distintivi dell’Italia delle enormi speranze, quella del boom economico che seguì il periodo bellico. L’Italia che sognava la redenzione.
“È il denaro: comincia tutto da lì” dice Militina, ex compagno di fabbrica del protagonista, costretto a trascorrere i suoi ultimi giorni imprigionato in un malsano manicomi e il cui intervento, aprendo la mente di Lulù, ne deluciderà i dubbi.
Come una drammatica profezia, La classe operaia va in paradiso denuncia la degradazione di un paese afflitto dal flagello del denaro, radice di tutto il male presente, morbo indefinito che, scaturendo dalla forzata industrializzazione, contagia rapidamente ogni angolo della società.
Specchio della situazione sociale dell’epoca, la pellicola si focalizza sull’insanabile lacerazione tra la massa e i “teorici” del movimento operaio: l’agire studentesco — come quello del sindacato, potere mediatore colto nel suo crescente depotenziamento, destinato ad un inesorabile declino — assume le sembianze di una retorica artificiosa, intangibile e innaturale, distante dal materialismo proletario.
Il personaggio di Ludovico Massa, interpretato in maniera magistrale da Gian Maria Volonté, diventa emblema di una feroce critica alla classe dirigente, ai sindacati e alla matrice astratta del movimento studentesco.
Emblematica, a tale riguardo, la scena in cui vengono inquadrate le figure degli studenti, immersi nella nebbia, illuminati dai raggi cristallini del sole. Come a rievocare il mito platonico della caverna, l’eccessiva luminosità delle sagome, irraggiungibili e inconoscibili, sembra accecare l’operaio-prigioniero; riecheggia una frase pronunciata numerose volte all’interno della pellicola: “la fabbrica è una galera e, dalla galera, si evade” .
A causa dell’assoluto rifiuto dei compromessi e del suo non essere faziosa, la pellicola, stroncata da partiti e da sindacati, dalla destra e dalla sinistra, riuscirà in un’impresa titanica che sembrava irrealizzabile: conciliare le diverse componenti della politica italiana, unificare gli opposti.
Presentato fuori concorso alla Mostra Internazionale del cinema libero di Porretta Terme, il film susciterà una reazione fortemente polemica, che troverà il suo apice nell’intervento persecutorio di Jean-Marie Straub: il regista francese, facendosi rappresentante di un barbaro fanatismo ideologico, invocherà la necessità del rogo.
Fortemente influenzato dalla filosofia marxista, di cui riprende la teoria dell’alienazione operaia, il regista si muove tra stacanovismo e capitalismo, tra fordismo e toyotismo.
Gli operai vengono catturati nella loro desolazione, assorti e concentrati sulla macchina a loro affidata. I movimenti che compiono, ripetuti ossessivamente, sono rapidi e concisi. I loro volti, colti nello sforzo produttivo, assumono un’espressione assente, stordita e disorientata. I loro timpani sono dominati dal rumore, le loro membra dall’ulcera, manifestazione del male che li sta corrodendo dall’interno, e dalla malattia dovuta ai ritmi ossessivi, malati e asfissianti della fabbrica.
In La classe operaia va in paradiso, il successo lavorativo è lontano dall’essere elogio di Dio e mezzo per raggiungere la ricompensa divina, dall’essere manifestazione della grazia divina e garanzia della salvezza dell’eterna beatitudine.
Abbandonando l’ideologia calvinista e l’etica di matrice capitalista, citate nel titolo con una connotazione fortemente ironica, Elio Petri demistifica il lavoro, fatto solamente di sofferenza e sfruttamento.
La quotidianità dell’operaio, completamente alienato dal prossimo (“ma cosa mi importa a me di come ti chiami te“) e ridotto a mera forza lavoro, è caratterizzata dall’assoluta mancanza di rapporti umani sinceri: in un microcosmo definito dall’apatia, il dolore dell’individuo diventa oggetto di speculazione, da strumentalizzare in modo da raggiungere il proprio interesse personale.
L’operaio di Petri, come quello di Marx, è alienato dal proprio prodotto (“vorrei sapere cosa produciamo noi in fabbrica“), che risulta indefinito e imprecisato, dalla propria attività e dalla propria essenza.
Focalizzandosi sul dettaglio e concentrandosi sulla gestualità dell’operaio, la fotografia di Luigi Kuveiller, oltre ad essere un notevole esercizio tecnico, si eleva a sintesi del pensiero del regista.
Soffermandosi attentamente sugli spazi angusti degli interni industriali, la fotografia di La classe operaia va in paradiso diventa espressione dell’animo dei protagonisti, oppressi dallo sfruttamento, raffigurazione della distruzione psico-fisica della classe operaia.
La classe operaia va in paradisotermina con un sogno raccontato dal protagonista. Nel rumore, però, nessuno sente la voce di Lulù, oppressa dal caos industriale. “Si deve abbattere un muro che separa gli operai da ciò che, nel sogno, appare come il Paradiso, dove non si vogliono lasciare entrare gli operai: questi — dichiara Elio Petri — si mettono d’accordo per abbattere il muro, l’abbattono e trovano una nebbia spessa da cui emergono loro stessi.”
La nebbia ottenebrante della delusione e la luminosità della speranza illusoria dominano l’apocalittica visione onirica di Ludovico Massa, pervaso da una follia visionaria.
Il paradiso è nascosto dietro un muro, lontano e irraggiungibile: la sua conquista appartiene solamente alla dimensione irreale del sogno e della speranza.